L’allentamento delle misure restrittive introdotte per fronteggiare il nuovo coronavirus ha evidentemente riavviato le attività economiche durante le ultime settimane. Ma attenzione: questo non significa che il peggio sia necessariamente alle spalle. La ripartenza è infatti piuttosto traballante, e non è nemmeno scontato che sarà duratura.
A soffermarsi su ciò è una interessante nota a cura di Nikolaj Schmidt, chief international economist di T. Rowe Price, della quale abbiamo colto alcuni spunti che abbiamo voluto condividere con tutti i nostri lettori.
Il rischio di una nuova ondata
Il primo rischio nel post-COVID 19 è evidentemente quello di una nuova ondata di contagi, soprattutto in quelle aree che hanno finora potuto contenere in maniera positiva l’espansione della pandemia. La prima domanda che dunque occorre porsi è se il distanziamento sociale applicato con buon senso, consentirà di riaprire stabile le economie, senza far aumentare i tassi di contagio.
Le tensioni tra Stati Uniti e Cina
Le elezioni presidenziali USA distano pochi mesi, e Trump ha rafforzato la sua retorica comunicativa dipingendo la Cina come suo primo nemico. Le relazioni tra le due potenze sono sempre più incerte, ed è possibile che Trump – soprattutto se noterà che i sondaggi sono favorevoli in questo senso – possa inasprire ulteriormente i rapporti con la Cina, fino a ritirarsi dall’accordo di Fase 1. Lo scenario centrale è comunque quello di un mantenimento dell’intesa di Fase 1, anche se le prossime settimane potrebbero far mutare drasticamente tale ipotesi.
L’indebitamento delle società statunitensi
Le società statunitensi si stanno indebitando sempre di più, in una tendenza crescente negli ultimi anni, tanto che la loro esposizione passiva è passata dal 66% del Pil nel 2012 al 75% del Pil nel 2019. Questo fa dunque sorgere nell’analista la domanda se sia in arrivo uno tsunami di default societari, che potrebbero produrre delle perdite significative anche nei bilanci degli istituti finanziari.
Lo scenario di T. Rowe Price non è tuttavia drammatico per tre ragioni:
- il debito è stato emesso con tassi di interesse molto bassi;
- il governo ha fornito un forte sostegno alle società;
- i bilanci degli intermediari sono molto più solidi rispetto all’ultima crisi.
Il consolidamento fiscale nei mercati sviluppati
In tutto il mondo i governi sono intervenuti con particolare decisione in sostegno delle proprie economie durante la crisi. Tra i mercati sviluppati, quasi tutti i Paesi dispone oggi di infrastrutture istituzionali utili per monetizzare il deficit mediante il quantitative easing, e l’assumulo di debito non preoccupa dunque più di tanto.
Piuttosto, la nota sottolinea se la crescita economica sarà o meno in grado di resistere ai venti contrari che si scateneranno nel momento in cui i Paesi saranno costretti ad entrare in un regime di consolidamento fiscale.
La crisi fiscale nei mercati emergenti
Nei mercati emergenti la situazione di politica fiscale è sicuramente più seria. Deficit troppo ampi e l’impossibilità di fare affidamento sulla monetizzazione di cui sopra, potrebbero infatti condurre all’impossibilità di rifinanziare il proprio debito. I principali indiziati sono, in questo ambito, Sudafrica, Brasile, Turchia e Colombia. È anche vero che i mercati emergenti rappresentano solamente il 21% del Pil globale, e dunque l’impatto potrebbe essere gestibile, per quanto gravoso.
Una nuova crisi dell’eurozona
I Paesi dell’Europa meridionale, come l’Italia, hanno vissuto un decennio di crescita scarsa. Ne è derivata una crescente “antipatia”, di buona parte della società nei confronti delle istituzioni europee, con la sensazione che tale antagonismo possa essere rafforzato con la conseguenza dei danni economici della crisi attuali. Insomma, i Paesi europei più in difficoltà… dovrebbero continuare ad esserlo anche nei prossimi 10 anni, anche alla luce di strumenti (come il Recovery Fund) che finiranno con l’essere meno generosi di quanto si ambisce ad ottenere.
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