Si era entrati nel vivo del tema Brexit pochi mesi prima dell’esplosione della pandemia di Coronavirus, quando era stata definita la durata del cosiddetto periodo di transizione di un anno, durante il quale Londra e Bruxelles avrebbero avuto tutto il tempo per conlcudere i negoziati e giungere ad un accordo commerciale per la Brexit.
Il tempo a disposizione però è stato letteralmente risucchiato dall’emergenza Covid-19, e da tutte le conseguenze che i lockdown hanno provocato sulle economie dei rispettivi Paesi, causando la più grave crisi della storia d’Europa dal dopoguerra ad oggi.
Così, come era facile prevedere, anche il tema Brexit è passato in secondo piano, salvo poi tornare alla ribalta della cronaca nei giorni scorsi, con l’approvazione da parte della Camera dei Comuni britannica del testo di legge (Internal Market Bill) che ritocca i termini dell’accordo precedentemente raggiunto da Ue e Regno Unito e sottoscritto dallo stesso Boris Johnson.
Come stanno andando le trattative per la Brexit?
A fare il punto della situazione ci aiuta l’analisi elaborata da Richard Flax, Chief Executive Officier di MoneyFarm, che ci ricorda come le previsioni circa l’andamento delle trattative tra Londra e Bruxelles erano tutt’altro che rosee fin dal principio, dal momento che le due parti partivano da posizioni inconciliabili su temi di importanza fondamentale.
Quello che sappiamo per certo, ora come ora, è che in caso di Brexit no deal, vale a dire uscita del Regno Unito dall’Ue senza un accordo commerciale concordato con Bruxelles, la Gran Bretagna non potrebbe assicurarsi un accesso privilegiato al mercato unico.
Si tratta di una prospettiva che, secondo gli analisti, è da ritenersi all’origine di tutta una serie di effetti negativi sull’economia, nonché conseguenze logistiche, anch’esse negative, per moltissimi settori per via della grande integrazione delle catene del valore tra una sponda e l’altra della Manica.
Ma ora che la fine dell’anno è vicina, e con essa la scadenza del periodo di transizione, Uk e Eu sono pià vicini ad un accordo? Non è facile stabilirlo, ma di certo la strada appare costellata di ostacoli di vario tipo.
A sentire le parti interessate dai negoziati sembrerebbe che uno spiraglio ancora ci sia, e qualcuno si mostra ancora fiducioso nella possibilità di giungere ad un compromesso. Parallelamente però ci si prepara all’altra evenienza, quella di una Brexit no deal, e si pensa a come comunicare il messaggio all’opinione pubblica, ma soprattutto si iniziano a mettere in piedi le infrastrutture necessarie per una ormai tutt’altro che improbabile uscita dall’Ue senza accordo. Tra queste non si escludono naturalmente neppure le iniziative di natura apertamente ostile.
Dall’Internal Market Bill alla Brexit no deal
L’unico accordo sulla Brexit che le due parti erano riuscite a raggiungere, è quello del gennaio 2020. Lo stesso accordo che l’Internal Market Bill, presentato nei giorni scorsi in Parlamento dal leader Tory e primo ministro britannico Boris Johnson, di fatto revoca unilaterlamente in alcune sue parti.
Il nodo della questione è quello del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, che in base a quell’accordo non viene ripristinato, nel rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo, ma perché ciò sia possibile alcune norme comunitarie dovranno continuare ad essere in vigore nell’Irlanda del Nord che di fatto appartiene politicamente al Regno Unito.
Il confine insomma finirebbe per essere spostato tra Irlanda e il resto del Regno Unito, ed è proprio qui che interviene l’Internal Market Bill, cioè a difesa dell’intergrità del Paese, salvaguardando al tempo stesso il rispetto dell’Accordo del Venerdì Santo, da cui l’appoggio alla legge anche da parte dei rappresentanti irlandesi in Parlamento.
Dall’Ue sono arrivate in risposta le minacce di un’azione legale nei confronti del Regno Unito, e lasciando trapelare la notizia di un piano per impedire alle case di compensazione della City of London di gestire affari provenienti dall’Ue. Una misura questa che potrebbe costare al Regno Unito migliaia di posti di lavoro, facendo inoltre gravare costi aggiuntivi su molte aziende che operano nella City.
La mossa di Boris Johnson potrebbe far parte di una tattica che dovrebbe permettergli di rafforzare la sua posizione negoziale, una sorta di bluff che dovrebbe convincere l’Ue che il Regno Unito è pronto ad uscire anche senza alcun accordo commerciale con Bruxelles.
La strategia di Johnson però ha anche avuto un prezzo, infatti per sostenere le sue posizioni si è trovato costretto a raggiungere accordi con alcuni parlamentari più moderati, ed in ogni caso il raggiungimento di un accordo, nonostante tutto, resta comunque difficile.
Tra i nodi più ostici vi è anche quello degli aiuti di Stato, considerato una delle maggiori impronte dell’approccio britannico al libero mercato inserito nella normativa europea. E la posizione di Londra oggi evidenzia l’intenzione di chiedere maggiore libertà di manovra nel libero mercato, senza dover sottostare alle direttive europee in fatto di decisioni di politica economica.
Altro nodo da sciogliere resta quello del diritto di pesca nella Manica. Anche questo secondo punto comunque è sul tavolo della trattativa, ma un accordo vero e proprio non è ancora arrivato e il tempo stringe.
La situazione appare piuttosto ingarbugliata, e sebbene un accordo commerciale sembri ancora molto lontano, secondo Richard Flax è proprio quello lo scenario più probabile. Un qualche tipo di accordo verrà alla fine raggiunto tra Londra e Bruxelles, secondo l’esperto di MoneyFarm, soprattutto perché l’interesse economico di entrambe le parti punta in quella direzione.
Ad influenzare in qualche modo la trattativa interviene anche il sempre più vicino esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Se, come preannunciano i sondaggi, sarà Biden il prossimo presidente, questi ha già annunciato che non firmerà un accordo commerciale col Regno Unito se la Brexit dovesse creare problemi per la pace in Irlanda del Nord.
Secondo il CEO di MoneyFarm, Richard Flax, se il Regno Unito dovesse alla fine uscire dall’Unione europea senza un accordo commerciale, la principale conseguenza potrebbe essere un rischio specifico per gli asset britannici, o nella peggiore delle ipotesi un rischio per la tenuta politica dell’Ue, che se non ci trovassimo in un contesto eccezionale, si sarebbe ripercosso sugli spread dei titoli di Stato periferici dell’Eurozona.
Visto invece lo scenario attuale che presenta una forte recessione globale, entrambi i rischi sopra descritti risultano sfumati, ed anche con una hard Brexit gli effetti specifici sarebbero diluiti almeno nel breve periodo.
Non si può in ogni caso escludere che questo fattore acquisisca maggiore rilevanza nel corso delle prossime settimane, tra i timori degli operatori, causando volatilità su alcune asset class. Infine, per quel che riguarda i portafogli, l’approccio diversificato potrà contribuire a tenere sotto controllo questo fattore di rischio, secondo la lettura di Richard Flax.
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