È sempre stato contrario all’uso del Mes, il Movimento 5 Stelle, ma ora che il momento della verità si fa sempre più vicino verrà alla luce cosa è rimasto di 5 Stelle in questo movimento fondato da un Beppe Grillo su posizioni difficili da conciliare con quelle assunte storicamente.

E tuttavia i fedelissimi del Movimento 5 Stelle potrebbero essere in numero sufficiente per mettere a repentaglio l’attuale esecutivo sul tema più spinoso, quello del fondo salva Stati. Potrebbe ripetersi, anche se in modo e con motivazioni totalmente diverse, ciò che accadde l’estate dell’anno scorso, quando in pieno agosto l’allora vicepremier Matteo Salvini fece cadere il primo governo Conte.

In teoria, ma solo in teoria, l’intero Movimento 5 Stelle dovrebbe esprimersi contrario all’uso del Mes, perché è quella la linea da sempre sposata dalla creazione di Beppe Grillo. Oggi però di quel Movimento è rimasto poco, e la scissione è sempre più vicina, inevitabile.

Ad esprimere preoccupazione in tal senso sarebbe stato lo stesso ex capo politico 5 Stelle, Luigi Di Maio, che avrebbe confidato ai suoi, secondo le indiscrezioni di Repubblica, che il rischio di una crisi di governo entro la fine di luglio esiste, e la causa sarebbe proprio il voto in Parlamento sull’uso del fondo salva Stati.

A Palazzo Chigi sanno bene che sul tema del Mes i numeri in Parlamento rischiano seriamente di non bastare, e così stanno facendo un po’ di conti. I senatori grillini che voterebbero coerentemente rispetto al mandato che è stato loro assegnato dagli elettori sarebbero solo una ventina, che paradossalmente vengono relegati alla definizione di dissidenti.

Gli altri invece, quelli che dalle battaglie contro il Mes sono passati a ben più miti consigli, continuerebbero, secondo quanto riportato da alcuni giornali, ad esprimersi contrariamente all’uso del Mes ma solo a parole. Nella realtà dei fatti, secondo quanto riportato ad esempio da Liberoquotidiano, voteranno a favore del Mes.

Dagli Stati generali all’informativa in Parlamento ma senza mai passare dal voto

Intanto sono in dirittura di arrivo gli Stati generali, convocati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Villa Pamphilj. Il terzo giorno dell’incontro con il Sistema Italia si chiude ed il premier si appresta a rendere una informativa alle Camere, ma guardandosi bene dal consultarle attraverso operazioni di voto pericolosissime per una maggioranza che si regge in piedi per miracolo.

I temi scottanti sul tavolo sono tanti, troppi persino per un esecutivo con solide basi, e non è certamente il caso del Conte bis. Così il premier si trova costretto a gestire problemi come quello della revoca delle concessioni ad Autostrade per l’Italia, il tema dei decreti sicurezza, ed ora la questione del Mes, il più lontano possibile dal Parlamento.

Per ora si tenta di rimandare, e sul Mes il premier afferma: “in questo momento non c’è necessità di attivarlo, dovremo costantemente aggiornarci, non ci sono certezze”. Sempre secondo il giornale Liberoquotidiano “l’Italia dovrà attingere al Mes per forza di cose, dato che i soldi del Recovery Fund non arriveranno prima del 2021”.

Ne sarebbero al corrente anche i vertici del Movimento 5 Stelle, ma qualcuno si permette di dissentire, come appunto i cosiddetti dissidenti, che per proprie personali convinzioni o per rispettare la volontà di chi li ha eletti, voteranno contro l’uso del Mes.

In tarda mattinata il presidente del Consiglio sarà al Senato per parlare sia del Meccanismo Europeo di Stabilità che dei temi affrontati nel corso degli Stati generali. Il suo discorso però non seguirà alcuna operazione di voto, come si fa notare su IlGiornale, ci saranno solo le “comunicazioni” del premier, una semplice “informativa” che non prevede che l’aula si esprima.

Sarebbe una prova di forza, dimostrerebbe che il premier può contare sull’appoggio di una maggioranza solida, che gode della fiducia delle Camere, se le consultasse, ma se ne guarda bene, dimostrando tutto il contrario.

Quanto alle questioni da affrontare, Conte come detto continua a rimandare ciò che si può rimandare: “per Autostrade bisogna chiudere il dossier il prima possibile, però la proposta dell’azienda, un piano da 2,9 milioni di euro, è inaccettabile”, mentre sul tema Alitalia afferma che “nascerà una newco integrata al sistema delle infrastrutture, non un carrozzone di Stato”.

La centralità del Parlamento nel Conte bis

Il Movimento 5 Stelle presenta da tempo una netta spaccatura, ma in un certo qual modo le due anime hanno convissuto fino ad ora. Il tema del Mes potrebbe però spaccare definitivamente il movimento creando due realtà politiche diverse ed evidentemente inconciliabili.

Anche su IlGiornale leggiamo che “non possiamo fare a meno dei 30-40 miliardi del Mes, sia pure condizionati alla sanità”, quindi il trucco quale dovrebbe essere per far ‘rinsavire’ quei grillini che all’uso del Mes continuano ad essere contrari? Serviranno delle garanzie in più sul Recovery Fund, forse, di certo servirà più tempo, ed ecco perché il confronto in Parlamento viene rimandato ancora e ancora.

Secondo quanto riportato sempre da IlGiornale, ci sarebbero almeno 4 o 5 senatori del Movimento 5 Stelle che all’uso del Mes sono fortemente contrari e che a costo di far cadere un Governo che peraltro si tiene su col nastro adesivo, voteranno contro, anzi “forse non aspettano altro” ipotizzano sul noto quotidiano.

Questa cosa che non si può votare inizia ad essere indigesta un po’ a tutti, e non ci riferiamo alle consultazioni elettorali, che ovviamente sono fuori discussione, blindate dalla necessità di fare il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari, ma al voto in Aula.

E pensare che l’accordo tra il Movimento 5 Stelle e il Pd per la nascita del Conte bis poneva come base fondante la centralità del parlamento. Il Pd, che è in sostanza la principale forza di Governo, dal momento che il M5s è ridotto a suo satellite, sembra comunque abbastanza a suo agio. Eppure raramente nella storia della Repubblica il Parlamento è stato relegato ad un ruolo di così marginale importanza.

Se n’è accorta anche Emma Bonino, che ha sbottato: “sono quattro mesi, dal 20 febbraio, che alle Camere non è consentito di esprimersi con un atto di indirizzo sulle decisioni europee. Con tutto il rispetto per le ville altolocate, il luogo delle decisioni è il Parlamento. Dovrebbe essere il presidente del Consiglio a chiedere un voto, perché lo renderebbe più forte. Siccome non sono certi che la maggioranza regga, si umilia una istituzione”.

Se non è il tema della centralità del Parlamento a turbare il Pd, a spazientire il segratario Nicola Zingaretti è invece una azione di Governo lenta e macchinosa. “È l’ora delle scelte” dice il segretario dem “al governo serve velocità”.

In effetti si procede a rilento, la ripartenza è gravata da misure restrittive fortemente penalizzanti per molti settori, nonostante i dubbi sul sussistere di una qualche emergenza sanitaria in questo momento siano sempre più diffusi, e nonostante i numeri dimostrino chiaramente che praticamente solo in Lombardia si continuano a registrare nuovi casi di contagio.

Eppure non è su questo che si concentra l’attenzione di Zingaretti. Le misure restrittive adottate non vengono mai criticate da nessuno, nemmeno dall’opposizione o da Italia Viva che raramente si lasciano sfuggire le occasioni per contestare l’operato di Conte.

D’altra parte il grosso del danno ormai lo hanno fatto le misure adottate nel periodo di lockdown, ed ora servono i soldi per ripartire, soldi che però continuano a non arrivare, come quelli della cassa integrazione, che per molti lavoratori accasati continua ad essere un miraggio. La gestione della ripartenza non piace nemmeno a Confindustria, che aspetta risultati, e non entusiasma i sindacati.

Il presidente del Consiglio intanto cerca di calmare gli animi ricordando: “l’Italia sta uscendo da uno shock senza precedenti. Gli effetti della crisi devono ancora dispiegarsi”.

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