I parametri che Bruxelles prende in considerazione per valutare se uno Stato è in regola coi conti pubblici, sono fin troppo numerosi, e non solo per l’Italia, che figura spesso tra gli ‘ultimi della classe’. La proposta quindi, in vista della revisione del Patto di Stabilità, è quella, in poche parole, di semplificare.

Ci saranno soltanto due paletti: uno consistente nell’obiettivo di ridurre il debito pubblico, l’altro un limite fissato all’aumento della spesa corrente al netto degli interessi. Al tempo stesso però, perlomeno questo è quanto verrà proposto alla Commissione, la possibilità di sottrarre dal calcolo della spesa corrente i soldi investiti in progetti strategici a livello europeo, come ad esempio infrastrutture digitali e mitigazione dei mutamenti climatici.

La condizione, in questo caso, è che le risorse destinate a tali scopi siano in aggiunta a quelle provenienti dal cofinanziamento nazionale, che è già oggi previsto in parallelo rispetto ai fondi Ue.

Il dialogo in merito alle proposte che la Commissione si troverà sul tavolo, è stato già intrapreso in occasione del vertice dell’Ecofin tenutosi ad Helsinki, dove si sono incontrati i ministri delle Finanze europei insieme al vicepresidente Valdis Dombrovskis.

Poi il tutto è stato messo nero su bianco in un report da 119 pagine elaborato dagli esperti dell’European Fiscal board (organismo indipendente di consulenza della Commissione) su richiesta del presidente uscente Jean-Claude Junker, e poi pubblicato lo scorso 11 settembre.

In occasione dell’Ecofin che si è tenuto il 14 settembre, il rapporto è stato presentato dall’economista danese Niels Thygesen, presidente dell’European Fiscal Board. L’organismo fu creato nel 2016 su proposta di Jean-Claude Junker, del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, del capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijssebloe, del presidente del Parlamento europeo in carica nel 2016 Martin Schulz, e del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi.

E sono stati proprio questi i nomi di coloro che, insieme all’economista italiano Massimo Bordignon, hanno tratto alcune conclusioni in merito all’efficacia dell’attuale Patto di Stabilità. Sebbene nessuno degli Stati Membri si trovi attualmente sotto procedura per deficit eccessivo, quella in cui ha rischiato di incappare l’Italia pochi mesi fa, i regolamenti varati allo scopo di rafforzare il Patto dopo la crisi economica sono stati un fallimento.

Nello specifico hanno fallito nel compito di stimolare riforme strutturali e investimenti pubblici, ma non solo. Infatti anche il target del cosiddetto “consolidamento fiscale“, che altro non è se non la riduzione del debito pubblico e del deficit, è stato totalmente mancato.

Le regole alla base del Patto di Stabilità hanno inibito gli investimenti

Il risultato ottenuto è stato quello di indurre gli Stati maggiormente in difficoltà a tagliare gli investimenti. Nel documento si spiega che l’attuale insieme di norme volte ad assicurare di fatto l’affidabilità finanziaria dei Paesi membri ha una serie di difetti strutturali.

L’attuale insieme delle suddette norme è costituito prima di tutto dal Patto di Stabilità del 1997 e dagli ulteriori 6 regolamenti approvati nel 2011 in seguito alla crisi dei debiti sovrani (il cosiddetto Six Pack), più i 2 che sono stati varati nel 2013 (two pack).

Il discorso dei difetti strutturali riguarda in primis il fatto che il sistema di vincoli che è stato tenuto come punto di riferimento fino ad oggi è obiettivamente troppo complesso, tanto che la Commissione si trova costretta a pubblicare ogni anno un manuale di oltre cento pagine per spiegare come funziona. Questo però non è sufficiente, perché la complessità delle norme fornisce ai Paesi Membri comode scappatoie per risultare in regola.

L’applicazione delle regole, spesso con un maldestro uso della flessibilità, ha indotto i governi a mettere in campo politiche fiscali pro-cicliche. Vale a dire generose nei periodi in cui l’economia godeva di buona salute, e fin troppo restrittive quando si trattava di recuperare terreno. A rendere più evidente questo trend, il track record degli anni successivi alla crisi dei debiti sovrani.

Si evince infatti che: “in alcuni Stati membri la quota degli investimenti pubblici rispetto alla spesa è in media diminuita nel periodo 2011-2018 rispetto al periodo 1998-2007″, cosa che è avvenuta in particolare in “Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda, Spagna, Belgio, Francia e Italia” dove invece di ridurre gli sprechi, hanno ridotto “la spesa pubblica produttiva in istruzione, ricerca e sviluppo, trasporti e infrastrutture” ottenendo di fatto l’effetto opposto da quello desiderato. Investimenti in questi settori infatti avrebbero reso più sostenibili nel tempo i conti pubblici.

In alcuni casi invece alcuni “progressi sostanziali nel correggere gli squilibri fiscali” sono anche stati compiuti, ma la poca chiarezza delle norme, complice un abnorme quantitativo di parametri di riferimento, ha permesso ad ogni singolo Paese di scegliere quali parametri gli fossero più congeniali, e dunque più facili da rispettare.

In questo modo è di fatto accaduto che “il rispetto della regola del debito si è ridotto”, mentre “per i Paesi che non hanno ancora raggiunto l’obiettivo per il saldo di bilancio strutturale c’è stata una significativa perdita di velocità nel sentiero verso quell’obiettivo” e “gli Stati in procedura d’infrazione hanno continuato ad affidarsi ad entrate eccezionali invece che aggiustamenti strutturali per mantenere il deficit sotto il 3%”.

La soluzione: solo due parametri da rispettare

Dombrovskis è stato scelto da Ursula Von der Leyen come suo vicepresidente esecutivo e responsabile del portafoglio affari finanziari. “Posso concordare con la maggior parte dei difetti individuati dall’Efb” ha spiegato dopo la presentazione del report. facendo riferimento a titolo esemplificativo a “la complessità e la tendenza verso politiche pro-cicliche”.

Così per gli economisti parte la sfida alla semplificazione. “Dobbiamo verificare se realisticamente sia possibile raggiungere un accordo su regole più semplici” ha detto Dombrovskis, e il primo passo su questa strada è quello di mettere da parte la “matrice dei parametri” ma anche il criterio dell’ “output gap”.

Quest’ultimo ha spesso rappresentato un problema per i ministri dell’economia italiani, che hanno a più riprese criticato il modo in cui la Commissione Europea calcola se la crescita reale di un Paese si avvicina oppure no al suo potenziale, per poter poi giungere a definire quale debba essere il suo sforzo per raggiungere detto potenziale.

Meno regole quindi, visto che alcune verranno accantonate, ma restano in piedi i parametri del Patto di Stabilità. In compenso l’Efb propone di adottare un “semplice tetto di medio termine al debito, e un obiettivo operativo, cioè un tetto al tasso di crescita della spesa primaria“.

Quest’ultimo deve essere legato alla crescita potenziale con una “clausola di salvaguardia” la cui attivazione può essere innescata solo a seguito di un’analisi economica indipendente, eseguita da istituzioni come l”Ufficio parlamentare di bilancio italiano e dallo staff della Commissione stessa.

I Paesi che si ritrovano con rapporto deficit/Pil superiore al 60% dovrebbero mantenere la spesa (al netto degli interessi) sotto la soglia del loro tasso di crescita potenziale. Qui però entra poi in gioco una variante della “golden rule” che consentirebbe di dedurre, dal calcolo della spesa primaria, gli investimenti aggiuntivi rispetto al cofinanziamento nazionale ai progetti europei.

Quanto fin’ora esposto riguarda le modifiche che si limiterebbero a ritoccare il regolamento, semplificando le norme da rispettare, al fine di favorire gli investimenti e la crescita. L’Efb però immagina anche la possibilità di fissare gli obiettivi di medio termine per ciascun Paese, in base ad accordi tra gli Stati su cicli di sette anni. I Paesi che hanno un debito alto dovrebbero quindi impegnarsi a ridurlo, mentre quelli il cui debito è basso dovrebbero rendersi disponibili ad aumentare la spesa pubblica, soprattutto adottando politiche che produrrebbero effetti positivi sui Paesi confinanti.

Un progetto senza dubbio ambizioso che stravolgerebbe il coordinamento della politica fiscale, che per quanto certamente lontano a realizzarsi, ora è se non altro in fase di discussione.

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