Ha ormai preso il via la de-globalizzazione dei commerci mondiali e con essa si è innescato un processo di formazione di una sorta di nuovo ordine monetario internazionale in cui il dollaro appare destinato a ricoprire un ruolo più marginale, facendo subentrare lo yuan.
Non dimentichiamo che oggi la moneta cinese rappresenta appena l’8% degli scambi mondiali, ma nonostante questo, in base al nuovo controvalore su cui andranno a piazzarsi le materie prime su cui hanno puntato sia l’economia cinese che l’economia russa, il dollaro perderà importanza a favore dello yuan.
Con la decisione dei governi occidentali di creare una profonda spaccatura tra Paesi europei e Russia imponendo sanzioni che sono state inserite nel contesto dell’operazione militare speciale russa in Ucraina, la frattura tra due blocchi sempre più nettamente contraddistinti si è ampliata e consolidata.
Da una parte abbiamo Usa, Europa, Australia, Canada, Giappone e Israele, e dall’altra Cina, Russia, India, Pakistan, Brasile, Iran e Cuba cui si aggiunge gran parte dei Paesi del continente africano.
Quanto all’inflazione, i cui tassi sono già diventati ampiamente insostenibili specie in alcuni Paesi del mondo, che ora stanno fronteggiando vere e proprie rivolte popolari, non possiamo aspettarci che vi sia un calo nel breve periodo, né che questo calo sia repentino, se e quando arriverà.
Bisogna assolutamente tener conto del fatto che le materie prime e le relative catene di approvvigionamento riverstono un ruolo destinato a diventare via via più importante su base mondiale, e andranno a sostituirsi in modo graduale ma inesorabile alla finanza Usa che ha spadroneggiato da almeno 50 anni a questa parte.
Abbiamo visto in questi mesi che con prezzi del petrolio e del gas che restano stabilmente alti la crescita dei prezzi non accenna a fermarsi, con conseguente perdita di potere d’acquisto e maggiore esposizione alla crisi soprattutto per i Paesi più poveri.
I Paesi che non dispongono di grandi risorse infatti vedranno il loro potere d’acquisto ridursi del 20-30% nel giro di una manciata di anni. L’Italia non è il Paese che si trova nelle condizioni peggiori, ma di certo pagherà un costo alto per le scelte politiche di questi ultimi due-tre anni, tra pandemia di Covid-10 e crisi ucraina.
Nel caso dell’Italia infatti abbiamo un Paese che consuma ogni anno 75 miliardi di metri cubi di gas, per un costo che nel 2020 si aggirava intorno ai 15 miliardi di euro, mentre oggi il costo raggiunge gli 80-90 miliardi dei quali 50 miliardi sono extra profitti delle compagnie energetiche.
Già nel 2020, a causa del lockdown imposto in chiave anti-contagio nell’ambito dell’emergenza Covid-19, la spesa media delle famiglie italiane ha registrato un netto calo, che si aggira intorno al 9% rispetto alla spesa complessiva dell’anno precedente. Si è trattato del calo più pesante degli ultimi 30 anni, accompagnato da una serie di fenomeni di rilevante importanza.
Abbiamo visto crescere i tassi di interesse, e quindi un’impennata del costo del debito, un’inflazione sempre più alta, con perdita del potere d’acquisto dei consumatori, quindi calo della domanda e riduzione dei consumi con conseguente crisi delle imprese, e in tutto questo si aggiunge l’incertezza in merito alle ormai imminenti elezioni politiche e alla squadra di governo che sarà chiamata a dare le risposte necessarie in questa crisi dalle prospettive sempre più buie.
Condizioni che hanno creato terreno fertile per le speculazioni dei mercati finanziari, con il debito pubblico italiano che è stato preso di mira nonostante lo scudo antispread (TPI).
Quali sono gli effetti della de-globalizzazione sull’economia russa
L’economia russa, essendo molto più solida di quella della stragrande maggioranza dei Paesi europei, subisce ben poco gli effetti di questo processo di de-globalizzazione innescatosi con la crisi della supply chain e accelerato con la crisi ucraina e le sanzioni occidentali contro Mosca.
A preoccupare la Russia non è certo la chiusura di Mc Donald’s, Starbucks, Ikea o Netflix, che senza difficoltà possono essere rimpiazzate da marchi russi, e non causano grossi disagi nemmeno le sanzioni e/o il blocco sull’export di petrolio che scatterà a partire da febbraio 2023.
Nemmeno l’inflazione ha creato particolari disagi nell’economia russa, infatti dopo essere salita nelle primissime fasi fino al 20%, è tornata vicino allo zero già a luglio, mentre in Europa ci si muove rapidamente verso il 10%.
Se guardiamo i fondamentali economici, vale a dire il cambio del rublo e le riserve della banca centrale, non vi sono criticità da segnalare, in quanto sono al riparo grazie all’enorme avanzo commerciale dovuto ai prezzi del gas e del petrolio.
Qualche preoccupazione potrebbe esserci invece per via della rottura delle catene di approvvigionamento, che rischia di determinare in Russia una carenza di chip e semilavorati di beni strategici essenziali per la costruzione di aerei, nell’industria dell’automobile, nelle telecomunicazioni. Tutti prodotti per i quali Mosca si rivolgerà ad est, ma non è detto che rimpiazzare i fornitori occidentali con India e Cina sia un passaggio repentino o indolore.
Appare evidente che a pagare il prezzo più alto delle sanzioni che hanno imposto, e più in generale del processo di de-globalizzazione, sono proprio i Paesi europei. Vediamo infatti un’inflazione elevata e duratura, sia per il fatto che le sue cause sono destinate a perdurare ancora a lungo, sia perché oltre l’80% delle materie prime e semilavorati su cui poggia le sue basi la nostra economia arrivano dalla Cina e dalla Russia, e difficilmente sentiranno il bisogno di far scendere i prezzi in un contesto di simile tensione politica.
La situazione sembra proprio aver superato il punto di non ritorno, e anche se a partire da domani tutte le tensioni legate a interessi geopolitici si allentassero di colpo, il processo innescato non potrebbe più essere fermato ugualmente, e il mondo dell’economia e della finanza non potrebbe tornare ad essere quello di prima.
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