Quando è stato introdotto, ormai più di tre anni fa, il Reddito di Cittadinanza veniva presentato come una misura che non si limitava a fornire un aiuto economico alle famiglie con un reddito così basso da non consentire di condurre una vita dignitosa, ma come un intervento concreto per agevolare l’inserimento nel mondo del lavoro di quelle persone che per una serie di ragioni non riuscivano a trovare un impiego.

In uno dei Paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione, con percentuali che nelle Regioni del Sud diventano addirittura allarmanti, il Reddito di Cittadinanza avrebbe dovuto compiere un vero e proprio miracolo, da una parte indirizzando la forza lavoro verso le offerte attraverso l’inserimento in un percorso di preparazione al mondo del lavoro, e dall’altra sostenere economicamente il disoccupato per tirarlo fuori dalla soglia di povertà fino al completamento del percorso avviato.

Il Reddito di Cittadinanza e il patto per il lavoro

Quando il Reddito di Cittadinanza, misura cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, è stato inizialmente presentato dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, veniva da lui stesso descritto come “una riforma complessa, perché fondata su un patto di lavoro, un patto di formazione e un meccanismo di inclusione sociale”.

Il meccanismo, seppur ritoccato qua e là nel corso di questi tre anni, è rimasto fondamentalmente sempre lo stesso, sia per quel che riguarda i requisiti da soddisfare per accedere al sussidio, che per quel che concerne gli importi erogati e, come previsto fin dall’inizio, l’importo viene erogato per un massimo di 18 mesi consecutivi, rinnovabili allo scadere del periodo se i requisiti sussistono.

Le critiche che sono state mosse da più parti, ed in particolare da alcune forze politiche, riguardano il meccanismo per l’inserimento del beneficiario del sussidio, all’interno di un percorso per trovare un impiego. Il patto per il lavoro insomma è rimasto sulla carta ma di fatto ha prodotto ben pochi risultati, un esito che, a dirla tutta, era alquanto prevedibile.

Perché il reddito di cittadinanza non ha funzionato

La realtà, nuda e cruda, che piaccia o no a chi ama criticare il Reddito di Cittadinanza da un comodo piedistallo solitamente costruito con le tasse dei contribuenti, è che il mercato del lavoro in Italia non è in grado di offrire un impiego se non ad una minima parte di coloro che percepiscono il Reddito di Cittadinanza, per tutti gli altri le opzioni senza il sussidio sono lo sfruttamento o la povertà.

Le sterili lamentele di alcuni imprenditori, che iniziano a farsi sentire soprattutto con l’arrivo della stagione estiva, circa le difficoltà a trovare lavoratori per la ristorazione e gli stabilimenti balneari, a poco servono se non a confermare che il Reddito di Cittadinanza ha sicuramente fallito nell’arduo compito di reinserire tanti disoccupati nel mondo del lavoro, ma al tempo stesso ha sicuramente offerto un’alternativa più dignitosa al quanto mai diffuso fenomeno dello sfruttamento e del lavoro nero.

Oggi il Reddito di Cittadinanza, specie all’indomani della crisi economica innescata dalle scelte politiche compiute nell’ambito dell’emergenza Coronavirus prima e della guerra in Ucraina poi, è diventato una misura di lotta alla povertà di importanza fondamentale. Tuttavia non è che in minima parte un sistema per il reinserimento nel mondo del lavoro, perciò la sua funzione non è e non può essere in questa cornice socio-economica, quella inizialmente prevista.

Il Reddito di cittadinanza diventa una rendita a vita

In questi tre anni abbiamo visto in modo chiaro che il Reddito di Cittadinanza non è in grado di offrire, alla stragrande maggioranza dei percettori, la possibilità di trovare un lavoro regolarmente e adeguatamente retribuito. Servono cambiamenti strutturali, cominciando da una legge sul salario minimo, maggiori incentivi alle imprese che assumono, una seria detassazione del lavoro, insieme ad una riduzione dell’età pensionabile per agevolare il cambio generazionale.

Si tratta di interventi importanti che hanno dei costi sicuramente elevati, e di certo non si può pensare che gli stessi risultati, in termini di occupazione, si possano ottenere con una misura come il Reddito di Cittadinanza, tanto meno per come si presenta oggi.

I dati dell’ultimo report dell’Inps di febbraio scorso parlano chiaro su quello che è oggi il ruolo del Reddito di Cittadinanza. Infatti il 70% dei nuclei familiari “esordienti” del 2019, vale a dire i primi a richiedere e ottenere l’erogazione del sussidio quando la misura fu introdotta, risultano ancora beneficiari alla fine del 2021.

Intanto, proprio in questi giorni, l’Inps sta ricevendo le nuove domande per il rinnovo del Reddito di Cittadinanza per ulteriori 18 mesi, che porterebbero a 4 anni e mezzo il periodo complessivo per il quale viene erogato loro il sussidio.

La legge che introduce il Reddito di Cittadinanza infatti non fissa un limite temporale massimo oltre il quale il sussidio non viene più erogato. Essa prevede invece che quei nuclei familiari che risultano ancora in possesso dei requisiti previsti possano fare ancora richiesta, e ciò rende il RdC, quanto meno per il 70% dei percettori, una ‘rendita a vita’.

Reddito di Cittadinanza per ulteriori 18 mesi dopo i primi 36

Dopo i primi 18 mesi durante i quali il Reddito di Cittadinanza è stato erogato, i beneficiari che ritengono di essere ancora in possesso dei requisiti, possono fare nuovamente richiesta dopo aver atteso un mese.

Quei nuclei familiari che hanno fatto richiesta del sussidio per primi e che hanno ricevuto la prima mensilità ad aprile 2019, hanno compiuto i 18 mesi a settembre 2020, quindi non hanno percepito alcun importo nel mese di ottobre per poi ricominciare a ricevere il sussidio il mese successivo per altri 18 mesi.

Si arriva così al raggiungimento dei 18 mesi proprio nel mese di aprile 2022, quindi stop per un mese a maggio e nuova richiesta di rinnovo sulla base della sussistenza dei requisiti con erogazione del sussidio a partire dal mese di giugno 2022 per ulteriori 18 mesi, con nuova scadenza a novembre 2023.

Quando si giunse alla scadenza dei primi 18 mesi, quindi nel quarto trimestre del 2020, le domande di rinnovo inviate all’Inps furono in tutto 784 mila, un numero altissimo se si considera che la media a trimestre è di 200 mila domande. Questo fa pensare che anche nel secondo trimestre 2022, con la scadenza degli ulteriori 18 mesi, vi sarà un picco di domande.

Le modifiche al Reddito di Cittadinanza del governo Draghi

Il Reddito di Cittadinanza, a conti fatti, funziona solo a metà. Esso rappresenta infatti una misura tutto sommato valida di contrasto alla povertà, ma non offre una soluzione reale al problema dell’occupazione.

In parte, secondo quanto riferiscono fonti del ministero del Lavoro, la scarsa efficacia del RdC nell’inserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari dipende dal basso titolo di studio di buona parte di essi.

Il ministero fa notare infatti che “è altissima la percentuale di coloro che hanno abbandonato precocemente gli studi (6% senza titolo, 14% licenza elementare, 51% licenza media)”. Si tratta quindi di profili che è più difficile inserire nel mondo del lavoro.

Una recente ricerca dell’Inps sui percettori del RdC nel trimestre aprile-giugno 2019, ha messo in evidenza che su 100 soggetti beneficiari, quelli “teoricamente occupabili” risultano essere poco meno di 60. Di questi abbiamo una 15ina di persone mai state occupate, 25 sono state in passato occupate, e altre 20 sono “ready to work” cioè hanno una posizione contributiva recente, e provengono da Naspi o impieghi part-time.

Il timore del governo è che qualcuno possa approfittarne. D’altra parte chi siede in Parlamento offre sempre un fulgido esempio di dedizione al lavoro e sacrificio, e che dei cittadini possano intascare, nella migliore delle ipotesi, 750 euro al mese senza fare nulla, non è tollerabile.

Una soluzione fortunatamente ha già provato ad offrirla il governo di Mario Draghi, che ha provveduto a modificare in senso più stringente i requisiti per continuare a percepire il reddito di cittadinanza, riducendo al tempo stesso l’importo erogato.

Ora abbiamo un sistema di “decalage” che riduce l’importo mensile riconosciuto al percettore nella misura di 5 euro al mese dopo il primo lavoro “congruo rifiutato”, ed è stata introdotta la possibilità di revocare il sussidio non più dopo la terza offerta di lavoro rifiutata, ma già dopo la seconda.

Tuttavia a giugno ci si aspetta un boom di richieste di rinnovo del sussidio per ulteriori 18 mesi, quindi è doveroso soffermarsi sul fatto che un numero non meglio precisato ma sicuramente piuttosto alto di beneficiari non ha ricevuto nemmeno due offerte di lavoro nel giro di tre anni.

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