In un sistema mondiale caratterizzato da un’economia globalizzata gli effetti di una crisi estesa non lasciano intonso alcun Paese, eppure le conseguenze possono variare sostanzialmente a seconda delle scelte operate in materia di politica economica e, specie in questo particolare contesto, in ambito energetico.
In alcuni Paesi, e tra questi troviamo l’Italia, il peso dell’inflazione si fa sentire con forza, in altri invece la situazione da questo punto di vista risulta essere assolutamente sotto controllo. Se nel primo gruppo di Paesi possiamo inserire senza dubbio Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti, nel secondo gruppo troviamo la vicina Svizzera, il Giappone e la Cina.
L’inflazione colpisce tutti ma non allo stesso modo
Secondo Larry Summers, che nel suo ultimo studio pubblicato proprio in questi giorni ha ricalcolato l’inflazione di oggi usando i metodi di rilevazione che si usavano negli anni ’70, abbiamo già raggiunto, e forse superato, i livelli di allora.
Considerando che vi è una lunga serie di fattori non strettamente economici che lasciano presagire nei prossimi mesi un ulteriore peggioramento della situazione, a cominciare dagli effetti a lungo termine su imprese e famiglie di lockdown e restrizioni in chiave anti-Covid, per continuare con la crisi energetica e delle materie prime, per poi finire con il plausibile ulteriore peggioramento della crisi ucraina e delle relazioni con la Russia, la situazione attuale per quel che riguarda l’inflazione preoccupa sicuramente più di quanto facesse negli anni ’70.
Ma tralasciamo per ora le prospettive future e concentriamoci sui risultati raggiunti, nei vari Paesi, nel contrastare l’inflazione. È in questo ambito infatti che troviamo Paesi come Svizzera, Giappone e Cina che sono riusciti ad ottenere risultati decisamente soddisfacenti, con un’inflazione insolitamente bassa vista la particolare congiuntura economico-finanziaria globale.
In questi Paesi virtuosi l’inflazione si attesta attualmente intorno al 2%, mentre tra eurozona e Stati Uniti siamo tra l’8 e il 10%, ma come mai? Sia i Paesi che rientrano nel primo gruppo che quelli che collochiamo nel secondo hanno sofferto le strozzature della logistica a livello globale e il rincaro delle materie prime, quindi non è questo aspetto a fare la differenza.
Anzi se prendiamo in considerazione la dipendenza dalle materie prime importate, nel gruppo dei Paesi con inflazione bassa è persino più alta che nell’altro gruppo. Stati Uniti e Regno Unito infatti possono produrre gas naturale in grandi quantità mentre Giappone e Svizzera sono costretti ad importarlo.
Perché l’inflazione resta bassa in Svizzera, Giappone e Cina?
A determinare una così evidente differenza dal punto di vista del fenomeno inflazionistico sono in particolare tre fattori:
- politica fiscale
- politica monetaria
- scelte nell’ambito della transizione energetica.
Politica fiscale: nel gruppo dei Paesi con un’inflazione alta abbiamo avuto senza dubbio una politica fiscale molto più espansiva di quella dei Paesi dell’altro gruppo. La Svizzera per esempio è l’unico Paese che ha dato una risposta fiscale tempestiva alla crisi, intervenendo soprattutto attraverso prestiti erogati direttamente alle imprese invece che attraverso sussidi o spese, mantenendo in questo modo un disavanzo collettivo al di sotto di quello dei Paesi che ora hanno un’inflazione molto alta. L’azione di stimolo della Cina è stata persino più contenuta, con interventi che come di consueto erano volti a espandere l’offerta invece che ad offrire sostegno alla domanda.
Politica monetaria: nei Paesi con inflazione alta abbiamo assistito ad una politica monetaria che ha accomodato gli enormi disavanzi pubblici con massicci acquisti di titoli di debito pubblico da parte delle banche centrali finanziati attraverso la creazione di base monetaria. Invece nei Paesi appartenenti all’altro gruppo ciò non è accaduto, oppure come nel caso del Giappone, ha continuato ad avvenire senza variazioni rispetto agli anni precedenti.
Transizione energetica: infine, per quel che riguarda le scelte operate nell’ambito della transizione energetica, il gruppo di Paesi che si sono ritrovati con un’inflazione decisamente più contenuta ha effettivamente operato delle scelte più pragmatiche e meno ideologiche. In Unione europea in particolare i programmi per la riduzione di gas e fossili hanno attraversato fasi alterne, apparentemente influenzate dalle dinamiche politiche e dalla ricerca del consenso nell’ominione pubblica. In questa fase però la spinta in questa direzione arriva soprattutto dalla necessità di raggiungere nel più breve tempo possibile l’indipendenza energetica dalla Russia che, tuttavia, è un obiettivo ambizioso a dir poco.
Cosa resta da fare per abbassare l’inflazione?
Ad incidere maggiormente sull’attesa di un’inflazione pi bassa è soprattutto la politica monetaria, come evidenziato nei giorni scorsi dallo stesso ex governatore della Bank of England, Mervyn King. Questi ha fatto notare che il fatto che le banche centrali stiano iniziando a rallentare la creazione di base monetaria dovrebbe garantire una discesa rilevante dell’inflazione nel giro di un paio d’anni.
Il quadro si complica però sul piano fiscale, in quanto il piano per il rientro nella normalità è stato pesantemente indebolito dalla necessità di affrontare ingenti spese per il riarmo e dalla necessità di ricorrere a sussidi sempre più consistenti per aiutare imprese e famiglie a superare la grave crisi che stiamo attraversando.
Il percorso che bisognava seguire per abbassare il livello dell’inflazione doveva partire già da quest’anno, invece ci sarà un ritardo sicuramente notevole che, tuttavia, non è ancora possibile quantificare. Senza contare che siamo di fronte ad un pesante rallentamento della crescita rispetto alle previsioni che erano state fatte nei mesi scorsi, da cui deriva una riduzione delle entrate fiscali e un aumento dei costi per gli ammortizzatori sociali cui si fa sempre più ampio ricorso.
Per quel che riguarda infine il problema energetico, i Paesi del blocco che si contrappone alla Russia stanno cercando di riallacciare i rapporti con Paesi fino ad oggi considerati se non nemici quanto meno tutt’altro che alleati di Usa e Nato, come l’Iran e il Venezuela.
Si tenta quindi di ricucire lo strappo prodotto da anni di politiche poco amichevoli, di sanzioni e di atti ostili, pur di incrementare le loro esportazioni di petrolio, fondamentali per poter continuare a imporre sanzioni contro la Russia.
E sempre nell’ottica di perseguire la strada delle sanzioni alcune battaglie ecologiche passano in secondo piano, come quella per la riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili a cominciare con il carbone. Per i Paesi asiatici, che hanno continuato ad avere degli ottimi rapporti con la Russia di Vladimir Putin, il problema non si pone, in quanto potranno continuare a importare gas, petrolio e prodotti energetici peraltro a prezzi scontati rispetto alla media di mercato.
Per noi invece, grazie ad una domanda globale in crescita e ad un’offerta sempre più limitata dalle sanzioni che noi stessi stiamo appoggiando, nonché dalla mancanza di investimenti, all’orizzonte non possono che esserci ulteriori rincari dei prezzi dell’energia che ci porteremo dietro fino a quando non si profilerà lo scenario di una recessione su scala globale.
Il percorso per uscire fuori dal picco inflazionistico come è facile dedurre da quanto fin qui esposto è tutt’altro che in discesa. Nonostante le previsioni delle banche centrali continuino ad essere tutto sommato ottimistiche, la situazione che si profila è un po’ più complessa e dai risvolti difficilmente prevedibili.
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