Il governo è sempre più convinto per l’aumento delle spese militari al 2%. Sono in molti a ritenere che il tema sia emerso in seguito allo scoppio dei conflitti armati in Ucraina, ma in realtà si tratta di un tema caldo già dal 2014, anno in cui la Russia ha invaso la Crimea.
In quell’occasione, Obama e Cameron (al vertice Nato in Galles) hanno richiamato gli altri membri dell’Alleanza Atlantica affinché rispettassero lobiettivo del 2%. La questione è tornata di attualità in queste settimane, quando la Crimea ha approvato un ordine del giorno collegato al decreto Ucraina.
L’ordine del giorno di cui si parla, impegna il governo Draghi ad aumentare le spese militari al 2% del Pil. Ma cosa significa tutto ciò? Entriamo nel dettaglio.
Cosa significa aumentare le spese militari al 2%?
Secondo alcune stime pubblicate dal ministero della Difesa, l’aumento delle spese militari al 2% del Pil significherebbe dagli attuali 25,8 miliardi all’anno (quindi circa 68 milioni al giorno) a circa 38 miliardi all’anno (quindi 104 milioni al giorno).
Ma è stata davvero l’invasione in Ucraina a spingere il governo a valutare questa scelta? Durante un’intervista al sito Upday, Fabrizio Coticchia, professore associato di Scienza politica all’Università di Genova, ha spiegato qual è il vero motivo alla base dell’aumento della spesa militare.
“E’ chiaro che il momento chiave nell’aumento delle spese in tutta Europa è stato il 2014. Da allora l’Alleanza si concentra su 3 punti: cash, capabilities e contributions. Con “cash” si intende il famoso 2% da raggiungere entro il 2024, le “capabilities” sono gli investimenti per equipaggiamenti pari al 20% del bilancio, mentre “contributions” indica l’impegno in missioni Nato all’estero”.
“Settore (quest’ultimo) in cui l’Italia, almeno prima della crisi in Ucraina, era in prima linea con i suoi contributi in Iraq, Afghanistan e altre operazioni“.
Aumento spese militari: è una corsa al riarmo?
Il professor Coticchia ha poi aggiunto: “nel corso degli anni l’Italia ha avuto una politica precisa in questo senso. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha ribadito che bisogna investire per ottenere prestigio e credibilità a livello internazionale”.
“La politica del governo è stata basata anche sulla necessità di tutelare gli interessi nazionali del mediterraneo allargato e di aumentare la capacità della nostra industria militare”. Secondo il professore Coticchia, quindi, non è tanto importante riflettere su quanto si spende ma più che altro su come si spende.
Ecco le parole del docente universitario: “c’è una riflessione ancora limitata sulla strategia e sulla politica estera, gli interessi che andiamo a difendere non sono esplicitati. Per quanto riguarda gli investimenti occorre domandarsi: acquisire armi sì, ma per fare cosa? In tutto questo il controllo del Parlamento sull’acquisizione di armi è ancora molto limitato, come si evince dalla brevità dei tempi di lavoro delle commissioni su questi provvedimenti”.
Ma questo non è tutto. Sempre durante un’intervista a Upday, Denise Serangelo, presidente del think tank Analytica for intelligence and security, ha sottolineato come l’aumento della spesa militare e il riarmo siano in realtà due concetti distinti e non vadano, quindi, di pari passo.
In questo caso, specifica, non si tratterebbe assolutamente di una corsa al riarmo: “non bisogna commettere l’errore – sottolinea l’esperta – di collegare direttamente l’aumento delle spese militari a una vera e propria politica di riarmo. Il famoso 2% riguarderà probabilmente investimenti sul personale“.
“Questo vuol dire ampliare il bacino di arruolamento con ufficiali e sottoufficiali. In Italia si dice che ce ne sono già troppi, ma la verità è che soprattutto gli ufficiali sono ampiamente sotto organico. Manca invece la base, come tenenti e capitani che comandano plotoni e compagnie”.
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