Molti beni di consumo ultimamente scarseggiano, e non si tratta di un fenomeno che riguarda solo alcuni Paesi, bensì di una crisi globale che comporta carenza di materie prime e di generi anche di prima necessità, con conseguente aumento dei prezzi che si va ad aggiungere ai rincari dell’intero comparto energetico.
In tutto il mondo, seppur con una incidenza che differisce alquanto a seconda dei casi, i consumatori stanno riscontrando difficoltà nel reperire prodotti di vario tipo, ma la carenza riguarda soprattutto l’intero comparto elettronica, quindi elettrodomestici, computer, tablet, e coinvolge il mercato dell’automobile, con tempi di attesa lunghissimi per poter acquistare un’auto nuova.
Una situazione che sta andando avanti in realtà da diverse settimane e che potrebbe perdurare anche fino alla fine dell’anno se non oltre. Anzi a dirla tutta le previsioni sono tutt’altro che rosee in quanto gli osservatori si aspettano che prima di vedere la ‘luce in fondo al tunnel’ la situazione dovrà prima peggiorare ulteriormente.
Ma cosa dobbiamo aspettarci esattamente e per quale motivo sitamo vivendo questa crisi commerciale globale senza precedenti? In un approfondimento su Il Post si prova a fare il punto della situazione.
La crisi commerciale potrebbe rovinare il Natale
Scarseggiano prodotti di vario tipo, come dicevamo, dalle automobili agli articoli di elettronica, ma non solo. Manca persino la carta per stampare i libri, e comprare una semplice bicicletta nuova può diventare un’impresa non da poco.
A mancare insomma sono prodotti importanti e molto usati, con ritardi enormi nelle consegne che possono dipendere da un problema di trasporti che al momento sono gravemente ingolfati, oppure da un problema di scarsità dell’offerta legato ad un rallentamento nella catena di produzione invece che in quella dell’approvvigionamento. In molti casi incide sia un fattore che l’altro.
Ma per quanto tempo dovremo rimanere in questa situazione di sostanziale carenza di generi di ogni tipo? Sicuramente fino a Natale, ma probabilmente anche oltre, e questo rischia di compromettere la ripresa per tutte quelle attività che puntano molto sulle festività natalizie per imprimere una spinta e far ‘decollare gli affari’.
Sul sito Wirecutter si parla proprio di questo, cioè del rischio che la crisi commerciale globale finisca col “rovinare il Natale”. Una preoccupazione che riguarda da vicino soprattutto gli Stati Uniti, ma anche il Regno Unito, ma che sembra toccare meno da vicino Paesi come l’Italia dove a quanto pare le carenze che stiamo sperimentando sono meno pesanti che altrove.
Non che in Italia si sia immuni da aumenti dei prezzi e ritardi nelle consegne dei prodotti, tutt’altro, ma il fenomeno si presenta, almeno per il momento, più contenuto rispetto che in altri Paesi.
Quanto alla durata di questa crisi, per ora le previsioni indicano almeno la metà del 2022, il che significa che non ci sarà un’inversione di tendenza prima della prossima estate preceduta da un peggioramento della situazione, e non è da escludere che la cosa si protragga persino dopo.
Secondo alcune stime infatti la crisi durerà fino alla fine del prossimo anno e potrebbe rientrare almeno in parte solo nel 2023. In ogni caso la situazione non andrà certo a migliorare nei prossimi mesi, ma peggiorerà con maggiori ritardi nelle consegne e un ulteriore aumento dei prezzi.
Cos’è la crisi della supply chain
In molti, tra esperti ed economisti, definiscono quella che il mondo sta sperimentando in queste settimane come la crisi della “supply chain”. Di cosa si tratta esattamente? La traduzione letterale di Supply Chain è catena di approvvigionamento, e infatti è proprio quel meccanismo che ha smesso di funzionare, un meccanismo complesso di trasporti e rifornimenti su cui si basano il commercio e l’economia mondiali.
Si tratta di un meccanismo che, almeno fino ad oggi, non aveva dato mai alcun segno di cedimento, ma che evidentemente non ha retto lo shock provocato dallo stop forzato determinato dai lockdown di inizio 2020.
La crisi della supply chain insomma è stata scatenata dalla pandemia, qualcuno potrebbe dire, ma in realtà è inesatto. La pandemia di per sè avrebbe sicuramente frenato i consumi, quanto meno nelle prime fasi, perché molte persone avrebbero istintivamente ridotto tutte quelle spese legate all’aspetto della socialità, ma da sola non avrebbe mai prodotto la crisi della supply chain che stiamo attraversando.
La causa principale di questa situazione, che piaccia o no, è la gestione della pandemia sulla scia di lockdown e restrizioni che hanno costretto centinaia di milioni di persone nelle proprie case per settimane, e in molti casi per mesi.
Lo squilibrio tra domanda e offerta e la crisi della supply chain
Ma in che modo il lockdown e le restrizioni più pesanti in chiave anti covid adottate soprattutto nelle prime fasi della pandemia hanno provocato questa crisi? Il ricercatore Stavros Karamperidis ne ha parlato su The Conversation, dove ha spiegato che la crisi della supply chain è “un classico squilibrio tra domanda e offerta”.
In pratica sta accadendo che i consumatori vogliono comprare beni e prodotti che il sistema al momento non è in grado di fornire nei tempi e nelle quantità richiesti.
Ma come si è arrivati a questo? Come accennato i lockdown ne sono la causa principale, ma non l’unica. Ad incidere sulla situazione attuale sono state anche alcune scelte, specie nel campo dell’energia, operate dai governi. Una crisi che comunque non è così semplice da spiegare, e come ha scritto Tyler Cowen su Bloomberg “alcuni fondamentali centri nevralgici dell’economia mondiale sono stati colpiti da un misto di Covid e sfortuna”.
Ma torniamo alla causa principale: lockdown e restrizioni in chiave anti-Covid. La strada che la maggior parte dei governi mondiali ha deciso di imboccare nel dichiarato intento di contenere la diffusione del virus ha portato prima di tutto a un rallentamento notevole finanche ad un vero e proprio stop della produzione in molti Paesi.
È successo in Cina, in Vietnam, in Germania, (così pure in Italia naturalmente) dove con la prima ondata di contagi a molte fabbriche è stato imposto di interrompere la produzione. In altri casi ci sono stati dei forti rallentamenti legati ad esempio alla presenza di lavoratori positivi (quasi sempre asintomatici) costretti a rimanere in quarantena insieme a tutti i colleghi coi quali erano entrati in contatto.
Misure simili hanno mandato in crisi la catena di produzione tanto che nel primo periodo della pandemia si temeva che gran parte dell’industria manifatturiera sarebbe crollata.
Le imprese che si occupano di trasporti hanno agito di conseguenza, e prevedendo un crollo dei commerci mondiali hanno ridotto notevolmente le spedizioni tagliando le rotte, e in alcuni casi hanno colto l’occasione per lavori di ristrutturazione delle navi portacontainer visto che comunque sarebbero rimaste ferme per un tempo presumibilmente lungo.
Leggere correttamente quello che stava accadendo e prevedere quindi cosa sarebbe accaduto di lì a poco era tutt’altro che semplice, e le previsioni si sono rivelate abbondantemente imprecise.
Infatti se da una parte vi è stato un crollo dei consumi in settori come turismo e ristorazione, dall’altra vi è stato persino un aumento dei consumi legato a tutto ciò che le persone decidevano di acquistare nella prospettiva di passare più tempo a casa.
Ed ecco che, complice anche la modalità smart working e la didattica a distanza, la domanda di dispositivi elettronici è cresciuta improvvisamente. Hanno subito un’impennata quindi le vendite di computer, tablet, stampanti, ma anche consolle per video giochi e accessori ed elettrodomestici per cucinare a casa.
Un aumento della domanda che su Il Post viene definito infatti “forte e improvviso” in grado di mettere “in crisi tutta una serie di settori manufatturieri la cui programmazione della produzione è abitualmente molto prevedibile e scandita da ritmi regolari”.
La carenza di materie prime e prodotti è iniziata dai microchip
Visto il quadro sopra brevemente descritto appare chiaro che a scarseggiare prima di tutto non potevano che essere i microchip, e in generale quei componenti indispensabili per far funzionare non solo computer, smartphone e tablet, ma anche molti altri elettrodomestici dal più semplice al più complesso, da quelli che si usano in cucina alle consolle di gioco.
Si tratta infatti di prodotti per i quali la domanda ha subito un’improvvisa impennata con l’imposizione di lockdown e restrizioni che costringevano i cittadini a restare in casa.
Inoltre la produzione dei microchip richiede un processo tecnologicamente complesso che necessita pertanto di importanti infrastrutture, investimenti e di manodopera qualificata. Questo vuol dire che non è possibile diversificare o ampliare la produzione di microchip in tempi brevi, ed è proprio questo che sarebbe stato necessario fare in questi mesi.
Senza microchip in molti settori la produzione ha subito dei forti rallentamenti. Tra i primi a risentire di questa carenza ci sono stati settori di minor peso come quello automobilistico, che necessita di chip non particolarmente sofisticati, quindi meno costosi, ma in seguito anche gli altri.
A dover ridurre la produzione si sono trovate anche aziende grandi come Apple, che questo mese ha annunciato che taglierà la produzione dei suoi iPhone proprio per via della carenza di microchip. E pensare che ad aziende come questa i fornitori danno ovviamente la priorità nelle forniture.
Come si è innescata la crisi della produzione
Quando lockdown e restrizioni hanno iniziato ad essere messi da parte dopo la prima ondata di Covid-19, le economie mondiali si stavano riprendendo e si è verificato un forte aumento della domanda di nuovi prodotti di vario tipo.
Questo incremento della domanda è stato determinato da diversi fattori, in parte dalle riaperture, ma in parte anche dal fatto che moltissimi consumatori si erano trovati con dei risparmi extra per via dei soldi non spesi a causa del lockdown. Ad incidere su questa improvvisa disponibilità economica che ha interessato alcune categorie in alcuni casi hanno inciso anche i vari bonus introdotti dai governi.
E mentre una parte della popolazione si trovava costretta per la prima volta a rivolgersi alle organizzazioni no profit per ottenere un pasto (i dati sull’aumento della povertà e delle disuguaglianze conseguenti a lockdown e restrizioni sono storia), un’altra parte si ritrovava con un gruzzoletto da parte che sarebbe stato destinato all’acquisto di prodotti e servizi.
Stando ad una stima fatta da Moody’s nella primavera 2021, durante il periodo dell’emergenza Covid sono stati accumulati in tutto il mondo circa 5.400 miliardi di dollari di risparmi in eccesso rispetto agli anni precedenti.
Quel denaro è già stato in parte speso, e in parte verrà speso nei prossimi mesi, e questo non farà che spingere con ancor maggior forza la domanda di prodotti cui la supply chain non è in grado di far fronte in questo momento.
Molte fabbriche hanno infatti tentato di aumentare la produzione per far fronte a questa impennata della domanda, ma il sistema mondiale della produzione, dei trasporti e dei commerci ha poca flessibilità e margini di errore minimi.
Su Il Post viene riportato l’esempio di un prodotto come il computer assemblato in Cina per il quale è “necessario fare arrivare microchip da Taiwan, uno schermo LED dalla Corea del Sud, componenti chimici dall’Europa e parti elettroniche da varie altre regioni del mondo” insomma si tratta di un modello produttivo “basato su una programmazione dettagliata e di lungo periodo” nel contesto del quale basta il ritardo di uno solo dei fornitori per fermare l’intero processo.
E quando le varie fabbriche, dopo lockdown e restrizioni che le hanno costrette a chiusure e rallentamenti, hanno tentato di aumentare la produzione tutte insieme per ripartire e recuperare terreno “la catena lunga delle forniture si è interrotta o rallentata e il sistema si è ingolfato”.
Il problema dei trasporti
La crisi dei trasporti ha giocato un ruolo fondamentale nel determinare la carenza di prodotti di vario genere. Bisogna tener conto del fatto che il sistema produttivo mondiale si fonda sullo spostamento continuo dei componenti e delle merci da un capo all’altro del globo, e nel momento in cui il comparto dei trasporti ha smesso di funzionare a dovere, le tempistiche si sono notevolmente allungate.
Ma cosa non ha funzionato esattamente? In primo luogo hanno iniziato a scarseggiare i container, ed è proprio attraverso questi enormi scatoloni di metallo che viaggia oltre l’80 per cento della merce.
Quando è iniziata l’emergenza Coronavirus moltissimi container sono ‘finiti nei posti sbagliati’. Basti pensare alle migliaia di container carichi di mascherine e dispositivi sanitari che sono stati inviati in regioni lontane dai principali snodi commerciali, come ad esempio l’Africa Orientale o l’Asia meridionale.
I container che sono arrivati carichi di prodotti di tipo sanitario però avrebbero dovuto trasportare altri beni per tornare indietro, ma dal momento che in queste Regioni non vi sono Paesi esportatori, la stragrande maggioranza dei container sono rimasti lì a lungo perché farli tornare indietro vuoti era antieconomico.
Ed ecco che nel momento in cui la domanda ha subito l’impennata che abbiamo visto, i grandi Paesi esportatori, come la Cina appunto, si sono ritrovati a corto di container.
Alla questione container si aggiunge un problema strettamente legato all’operatività dei porti, molti dei quali, specialmente i più grandi, sono bloccati o lavorano a ritmi notevolmente più bassi.
Le ragioni non sono sempre le stesse, ad esempio in Cina i porti sono stati chiusi per lunghi periodi di tempo dalle autorità nel dichiarato intento di contenere la diffusione del virus, e anche per i porti che proseguono regolarmente con la propria attività, i vari controlli e le misure anti contagio da rispettare rallentano le operazioni di carico e scarico.
In altre aree del mondo invece l’attività di molti grandi porti procede a rilento per via della carenza di manodopera. Un problema quest’ultimo che riguarda soprattutto Usa e Regno Unito, dove si riscontra una forte carenza di personale per caricare e scaricare i container e quindi le merci, e per svolgere le operazioni portuali ordinarie.
Il motivo per cui mancano lavoratori è legato prima di tutto, tanto per cambiare, alle restrizioni imposte per l’emergenza Covid in chiave anti-contagio. Alcuni lavoratori si trovano in quarantena, perché magari sono risultati positivi al virus o sono stati a contatto con lavoratori risultati positivi, e oltre a questo si devono fare i conti con il cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro, e con le difficoltà che si riscontrano nel trovare persone disposte a fare mestieri poco qualificati.
Prendiamo ad esempio i porti di Los Angeles e di Oakland, che sono tra i più importanti degli Stati Uniti. In questi porti le navi porta container si trovano costrette a restare ferme per diversi giorni prima di riuscire a scaricare il proprio carico, quindi caricare e ripartire verso nuove destinazioni.
Su Business Insider si è parlato di questo problema in maniera approfondita, cercando di analizzare anche l’aspetto del conseguente aumento dei costi di trasporto. Nei due porti sopra citati, secondo la prestigiosa rivista, si è registrato un aumento del 30 per cento della quantità di merci movimentate e al contempo si è verificato un calo del 28 per cento della manodopera disponibile.
Questo ha provocato inevitabilmente un’impennata dei costi di trasporto che possiamo anche quantificare. Inviare un contaier da Shanghai a Los Angeles, prima della pandemia poteva costare intorno ai 2.000 dollari, mentre già all’inizio del 2021 il prezzo era salito oltre i 25 mila, e questo naturalmente ha portato enormi profitti per il settore dei trasporti su container.
In questo settore infatti dai 15 miliardi di dolari del 2020 si prevede che per il 2021 si raggiungeranno i 100 miliardi.
E non sono solo i trasporti via mare ad essere in crisi, ma anche quelli via terra. Qui entra in gioco anche l’aumento del costo dei carburanti, inoltre in Regno Unito in particolare ma anche in molti altri Paesi sviluppati si rileva una forte carenza di autotrasportatori, che ricoprono un ruolo di importanza fonamentale nel funzionamento della ‘supply chain’.
Sono infatti gli autotrasportatori a spostare le merci dai container ai magazzini, e dai magazzini alle attività di vendita al dettaglio. Questo problema ha interessato soprattutto la Gran Bretagna, dove secondo le stime mancano circa 100 mila autotrasportatori, e in Germania le cose non vanno molto meglio, visto che ne mancano circa 80 mila. In tutta l’Ue secondo le stime mancano circa 400 mila autotrasportatori.
A tal proposito vale anche la pena ricordare che l’attività degli autotrasportatori, già di per sé piuttosto dura, è diventata in molti casi assolutamente insostenibile per via delle chiusure e delle restrizioni imposte in chiave anti contagio, e questo chiaramente è stato un elemento altamente disincentivante.
Il fenomeno dell’accaparramento ha complicato ulteriormente la situazione
L’imperativo era ripartire, e in realtà in larga misura lo è ancora, così molte imprese che si sono trovate alle prese con un iniziale calo delle forniture, per paura di restare a corto di componenti e materie prime, hanno fatto ordini maggiori rispetto a quella che era la reale necessità del momento.
Hanno così iniziato ad essere piazzati in ogni parte del mondo e da parte di aziende di ogni tipo, i cosiddetti phantom orders, cioè ordini fantasma. Erano i produttori che per non correre il rischio di trovarsi a bocca asciutta hanno preferito ordinare più forniture di quante ne occorressero realmente, pur sapendo che per i fornitori sarebbe stato impossibile soddisfare quelle quantità.
Poi sono entrate in gioco alcune scelte politiche, ed in questo caso l’esempio più emblematico è probabilmente quello degli Stati Uniti, dove quando Donald Trump annunciò che le aziende cinesi come Huawei non avrebbero potuto usare componenti contenenti tecnologia Usa per ragioni di sicurezza nazionale, molte aziende sono subito corse ai ripari ordinandi grosse quantità di microchip con l’obiettivo di anticipare il divieto, col risultato che le scorte dei produttori si sono immediatamente esaurite.
La crisi della supply chain: dai disastri naturali ai rincari delle materie prime
Insieme a tutti i fattori che abbiamo visto fin qui, e che hanno giocato un ruolo di primo piano nel determinare la crisi della supply chain, ve ne sono anche altri che devono necessariamente essere presi in considerazione per completare il quadro complessivo.
A mandare in tilt un sistema che funziona da decenni con un certo livello di stabilità hanno contribuito anche alcuni fattori che non sono direttamente legati al sistema dei commerci globali.
Ricordiamo anzitutto il forte aumento del costo delle materie prime, come l’acciaio, il legname, il petrolio, la farina, il caffè, e altre ancora. In alcuni casi gli aumenti dei costi sono legati anche alle difficoltà nel reperire le materie prime stesse, ma non sempre, e in ogni caso con gli aumenti dei costi delle materie prime si ha inevitabilmente un aumento dei costi dei prodotti finiti.
Poi c’è la questione energetica con il prezzo degli idrocarburi che ha raggiunto picchi record toccando i valori massimi da diversi anni a questa parte. Ciò ha determinato per molti settori un rallentamento della produzione, e in altri ancora una sua interruzione, e in tutti i casi i costi di produzione sono aumentati a dismisura, incidendo ancora una volta sul prezzo dei prodotti finiti.
A tutto ciò si deve poi aggiungere il fattore ‘natura’ con disastri naturali e fenomeni climatici estremi che hanno messo in ginocchio la produzione in diverse parti del mondo. Qui gli esempi più significativi sono la tempesta di neve che ha colpito il Texas nel corso dell’invernata, la quale ha provocato un rallentamento della produzione dell’industria petrolchimica dell’intero Stato, e questo ha determinato la carenza di semilavorati della plastica, di vernici e altri prodotti.
Oppure l’esempio del Taiwan, che è il maggior produttore mondiale di microchip, che ha dovuto fare i conti con una gravissima siccità a causa della quale la produzione si è rallentata o addirittura bloccata per via del fatto che per produrre microchip è necessario utilizzare grandissime quantità di acqua.
Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?
Abbiamo visto come siamo arrivati alla situazione attuale, quali fattori hanno determinato la crisi della supply chain, ma cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi mesi? Non è detto ad esempio che questa situazione perduri come si teme fino al 2022 inoltrato, e non sappiamo nemmeno se il Natale è effettivamente a rischio.
Gli scenari in realtà variano da Paese a Paese com’è facile immaginare, e per alcuni di essi il rischio che la crisi della Supply Chain finisca per “rovinare il Natale” è tangibile. I governi comunque stanno tentando di correre ai ripari adottando misure che dovrebbero essere in grado di evitare il peggio, come gli Stati Uniti ad esempio, dove Joe Biden ha dato disposizioni perché nel porto di Los Angeles si lavori h24.
In generale è piuttosto prevedibile che ci sarà ovunque un consistente aumento dei prezzi di molti prodotti, e che sconti e saldi non saranno particolarmente vantaggiosi quest’anno.
Alcuni analisti ritengono che nel periodo delle festività i commercianti punteranno a superare la concorrenza offrendo una maggiore scelta, e non gareggeranno per offrire i prodotti a prezzi più convenienti.
Con l’aumento del costo delle materie prime, dei costi di produzione e di trasporto, senza contare le difficoltà nel reperire i beni, l’inflazione sta galoppando da settimane in tutto il mondo, ed è proprio questo uno degli elementi di maggior preoccupazione per l’economia mondiale.
Il FMI di recente ha tagliato di un punto percentuale le previsioni i crescita per il 2021 negli Stati Uniti e tra le cause ha citato proprio la crisi della supply chain e l’inflazione.
La crisi della supply chain, seppur in misura minore, ha interessato persino colossi come Amazon o Apple, che in questi giorni hanno presentato dei risultati che si sono mostrati deludenti rispetto alle aspettative, e tra le cause citate, anche qui, troviamo i problemi con i trasporti e con le forniture.
Una situazione che comunque non ha compromesso la ripresa economica nella maggior parte dei Paesi sviluppati, che comunque registrano un notevole incremento del PIL anche per via dei bassissimi livelli toccati nelle fasi più acute dell’emergenza.
Ad ogni modo gli effetti della crisi della supply chain dipenderanno anche dalla sua durata, e secondo gli esperti si rischia di dover attendere fino alla fine del 2022 inizio del 2023 per un ritorno alla normalità.
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