Si potrebbe trattare del cambiamento più evidente portato dall’emergenza coronavirus e dal conseguente lockdown, nel mondo del lavoro. Lo smart working, la modalità di lavoro da casa che permette a migliaia di dipendenti di svolgere il proprio lavoro senza recarsi in ufficio, sembra proprio aver innescato il fenomeno dell’immigrazione al contrario, dalle città del Nord Italia verso quelle del Sud.
Il processo è già in atto, quello che non sappiamo e non possiamo sapere, è per quanto tempo continuerà e con quale incidenza sulla percentuale dei lavoratori. Quel che è certo, quello che tocchiamo con mano già da diverse settimane ormai, è che lo smart working sta permettendo a molti lavoratori di tornare a casa, nelle regioni del centro e del Sud.
Un biglietto di sola andata quindi e non un cambiamento del tutto momentaneo, per quei lavoratori che hanno la possibilità di svolgere la propria attività da casa in modalità smart working, invece che recandosi in ufficio e per quegli studenti che possono dare esami senza essere in sede. Ma cerchiamo di capire esattamente cosa sta succedendo e come lo smart working e la didattica a distanza hanno innescato questo nuovo esodo dalle città del Nord.
Con lo smart working migliaia di lavoratori tornano al Sud
È questo ciò che sta accadendo da quando è stata introdotta la modalità di lavoro smart working, ed ora si inizia a parlare di “South Working” vale a dire: lavoro al Sud, che in realtà è lavoro dal Sud ad essere precisi.
IlFattoQuotidiano parla di “schiere di professionisti, lavoratori e studenti” che dalle città del Nord si sono trasferiti nelle proprie città di provenienza, e non per fare una vacanza e per una breve parentesi, ma in via definitiva, almeno fintanto che dura lo smart working.
Inutile dire che era facile prevedere questo scenario, visto che la vita nelle città del Sud è notoriamente meno cara, a cominciare dagli affitti. Quindi chi deve lavorare da casa tanto vale che torni al Sud dove, ammesso che si trovi a dover comunque pagare l’affitto, gli costerà molto meno conservando lo stesso stipendio.
E non si tratta solo dell’affitto chiaramente, è il costo della vita a 360 gradi ad essere più basso nelle città del Sud, da cui il vantaggio di tornare a casa, senza contare che per tanti meridionali l’idea di poter tornare al Sud è un sogno che finalmente si realizza.
Si svuotano le città del Nord, per l’indotto del lavoro è allarme
L’esodo di ritorno al Sud fa bene a chi vuole tornare a casa, e può fare molto bene all’economia del Sud, ma di certo non fa bene a quella del Nord, con l’intero indotto del lavoro che sta pagando un caro prezzo.
Tutte quelle attività che nelle città del Nord ruotano attorno al lavoratore: gli affitti e l’intero mercato immobiliare, i bar, ristoranti, palestre e servizi alla persona di vario genere. Migliaia di lavoratori tornano al Sud in via definitiva o con prospettive di lungo termine e gli effetti come prevedibile si fanno sentire, infatti si registrano già da settimane le prime disdette di affitti.
Una situazione che non può che allarmare il Nord, anche se, come ha spiegato Carlo Squeri, segretario generale di Epam-Confcommercio “in questo momento è difficile calcolare una perdita media del comparto in città, perché ogni quartiere fa storia a sé”.
Qualche dato però inizia ad arrivare. “In pieno centro, la perdita di fatturato per alcuni locali si può misurare nell’ordine del 75% e la situazione peggiore è legata alle attività diurne, proprio perché gli uffici sono chiusi e i dipendenti non escono a pranzo” spiega Squeri, che ricorda: “Milano era una città nella quale circolavano tre milioni di persone al giorno, il doppio dei suoi abitanti”.
Ora invece Milano torna ai milanesi, non è dei lavoratori fuori sede e non è dei turisti. Non è nemmeno degli studenti, cosa che si nota in modo lampante se si frequentano quartieri come Città Studi, completamente svuotato.
Ad essere maggiormente colpiti dall’assenza dei fuori sede è anzitutto il settore della ristorazione, e non solo per quanto riguarda gli incassi mancati, ma anche per l’offerta di lavoro, visto che molti camerieri, e comunque la maggior parte dei collaboratori occasionali di bar, ristoranti e locali notturni, sono storicamente studenti fuori sede che hanno bisogno di entrate extra per mantenersi.
Un fenomeno che ovviamente non riguarda solo Milano, ma molte altre città del Nord. Va detto però che Milano è effettivamente la città più colpita dagli effetti dello smart working, o meglio del ‘south working’.
South Working, il fenomeno della migrazione Nord-Sud
Il fenomeno migratorio dalle città del Sud verso le città del Nord Italia è iniziato decenni fa, e secondo una stima de IlSole24Ore, negli ultimi 20 anni la città di Milano ha guadagnato circa 100 mila residenti provenienti da altre regioni del Paese ed in particolar modo da quelle del Sud.
Quello che sta accadendo, e che in parte è già accaduto nelle scorse settimane, è che per effetto della pandemia, quindi con l’introduzione dello smart working e della didattica a distanza, molte di queste persone tornano nella propria terra.
Queste persone continuano quindi a lavorare, ma lo fanno online da casa propria, perlopiù al Sud, e quindi non consumano più a Milano, non pagano più l’affitto a Milano e non usano più i servizi offerti da Milano.
Negli ultimi 15 anni secondo lo Svimez circa 2 milioni di lavoratori, soprattutto giovani e profili qualificati, hanno abbandonato il Sud per trasferirsi al Nord per lavoro. Uno strappo che in questi ultimi mesi si sta almeno in parte ricucendo proprio grazie allo smart working.
Secondo un’indagine condotta da Swg e centro studi Mediobanca, ha sondato la percezione dell’opinione pubblica. È emerso che il 23% degli interpellati si aspetta che lo smart working continui ad essere usato come nel periodo di lockdown se non ancora di più. Un altro 57% ritiene che verrà usato leggermente meno, e solo il 20% si aspetta che la situazione lavorativa torni ai livelli pre-emergenza Covid-19.
Il fatto che negli ultimi mesi molte aziende abbiano investito proprio nel lavoro a distanza, e che il Governo abbia messo in campo, ad esempio con il bonus pc e tablet, delle misure in grado di estendere lo smart working a un maggior numero di lavoratori, indica indubbiamente che la direzione imboccata è proprio quella ipotizzata dall’80% degli interpellati da Swg.
Inizia il contro esodo, per le città del Sud una opportunità da cogliere
Ma qual è la reale portata del fenomeno? Si tratta di un cambiamento radicale e irreversibile, oppure del tutto temporaneo? Secondo gli esperti è sbagliato convincersi degli scenari più pessimistici per le città del Nord o più ottimistici per le città del Sud.
L’emergenza sanitaria ma soprattutto le misure emergenziali di volta in volta adottate, lasciano inevitabilmente il segno nel mondo del lavoro, ma probabilmente, secondo gli esperti, non si tratta di vere e proprie rivoluzioni.
“Per le località del Sud e del Centro Italia è una grande opportunità” spiega Emilio Reyneri, professore emerito di sociologia del lavoro all’università Statale Bicocca di Milano “ma bisogna saperla sfruttare”.
Un punto sul quale è facile avere profondi dubbi, specialmente se si vive al Sud. Servirebbe un sostanziale miglioramento dei servizi offerti al cittadino, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture ai trasporti, per colmare almeno in parte l’arretratezza che grava sulle spalle delle città meridionali.
“Sul piano tecnologico, quella del lavoro a distanza è una soluzione praticabile anche senza particolari problemi e l’emergenza Covid ha fatto sì che si spezzassero alcune delle resistenze che le gerarchie aziendali mostrano sempre di fronte alle novità. Qualcosa è destinato a restare, anche una volta che saremo tornati a condizioni di normalità” spiega quindi il sociologo.
“Attenzione tuttavia a non dimenticare un aspetto importante delle organizzazioni lavorative” aggiunge Reyneri “ossia che le persone si devono incontrare fisicamente per condividere idee e scambiare opinioni” e a tal proposito l’esperto cita una battuta: “la pausa caffé è spesso più importante della conference call”.
Basta guardare in che modo lavorano le aziende della Silicon Valley californiana, sempre in prima linea nel guidare il processo innovativo. Lo smart working è certamente praticabile, ma è necessario anche preservare almeno in parte il contatto coi colleghi, a meno di non voler rischiare di compromettere le prospettive di carriera e gli standard produttivi.
Chiara Saraceno, sociologa presso l’università di Torino concorda sul punto, e fa notare come lo smart working sia adatto a lavoratori con qualifiche basse, come quelle degli operatori di call center per fare un esempio, e per quelle molto alte e ben remunerate a patto che non prevedano responsabilità di supervisione e organizzazione.
Tutto quello che c’è nel messo non è dirottabile sullo smart working. Servono relazioni dal vivo e se si vive troppo lontano dal posto di lavoro diventa troppo difficile e/o troppo costoso svolgere in modo efficace la propria attività.
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