Non potevano lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione alcuni imprenditori, che invece di retribuire regolarmente i propri dipendenti ha interrotto i pagamenti per mettere il dipendente in cassa integrazione. Nulla di strano direte voi, se non fosse che quei lavoratori in questo caso non hanno mai smesso di lavorare.
IlFattoQuotidiano ci riporta diverse testimonianze di lavoratori che si sono ritrovati ‘sotto ricatto’, costretti a lavorare esattamente quanto lavoravano prima, se non di più, per ricevere invece dello stipendio intero, l’85% previsto dalla cassa integrazione. Per il datore di lavoro però significa avere un lavoratore stipendiato dallo Stato.
“Da marzo a maggio avrei dovuto fare sei settimane di cassa integrazione, ma in realtà ho lavorato tutti i giorni, anche se a stipendio ridotto” racconta ai giornalisti un lavoratore che preferisce restare anonimo per ovvie ragioni.
Quella descritta attraverso queste testimonianze è purtroppo una situazione ampiamente diffusa in Italia nelle ultime settimane, una situazione che nessun lavoratore denuncia alle autorità per paura, che è più che altro una certezza, di perdere il posto di lavoro e rimanere disoccupato.
“Non ho mai detto ‘No, oggi sono in cassa’ perché non ero nelle condizioni di poterlo fare” racconta il lavoratore “potete immaginare cosa significhi rifiutarsi di partecipare a una chiamata di lavoro dopo la richiesta diretta di un superiore. Alla terza volta che lo fai, in modo corretto dato che saresti in cassa, diventa un elemento di cui l’azienda terrà conto quando si parlerà di contratti. E allora ci sei la prima, la seconda, la terza volta, e così alla fine non stacchi mai, lavori come sempre”.
Si tratta a tutti gli effetti di una frode ai danni dello Stato, come ha spiegato il segretario generale della Filcams Cgil Verona, Andrea Lovisetto. L’azienda infatti in questo modo non solo continua a fruire del lavoro dei propri dipendenti, ma lo fa a spese dello Stato.
L’azienda in questione, quella del lavoratore del quale abbiamo riportato parte della testimonianza ha fatto ampio ricorso al Fis, il Fondo di integrazione salariale, che è ciò che permette di fruire dell’ammortizzatore sociale per un massimo di nove settimane non continuative.
Si tratta di strumenti che sono stati concepiti per evitare una pioggia di licenziamenti in conseguenza delle misure restrittive adottate nel periodo di lockdown, ma dall’altro hanno anche mostrato degli enormi limiti in fatto di tempestività, con molti lavoratori che ancora non hanno ricevuto la cassa integrazione.
E le cifre, stando al rapporto dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, sono abbastanza preoccupanti. Infatti si stima che circa un quarto delle ore di cassa integrazione usate in questi mesi sono andate ad aziende che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato. In altre parole sono aziende che hanno continuato a tenere gli stessi ritmi, appunto perché non hanno rinunciato alla manodopera.
Significa che non solo le aziende in questione continuavano a produrre e a fatturare, ma la manodopera di cui si servivano veniva pagata dallo Stato in quanto in cassa integrazione.
Un esborso enorme per lo Stato, basti pensare che per la Cig Covid sono stati spesi 16,5 miliardi di euro, che sono stati coperti da un maggiore deficit, recentemente approvato dal Parlamento.
Ad essere finiti in questa rete non sono solo i lavoratori di grandi aziende, ma anche quelli di piccole realtà produttive. Su IlFattoQuotidiano leggiamo anche l’esperienza di un cuoco che lavora presso un ristorante situato nel centro di Verona che conta 11 dipendenti.
Nel mese di maggio il lavoro presso il ristorante è ripreso in maniera regolare, ma i dipendenti hanno continuato ad essere in cassa integrazione. “Il proprietario ci paga per le 20 ore a settimana che dichiara, ma io ne sto lavorando anche 60″ racconta il cuoco “il resto invece arriva dall’Inps”.
Qui poi la situazione si complica ulteriormente per il nostro cuoco, perché per i mesi di maggio e giugno i soldi della cassa integrazione ancora non li ha visti. In questo caso quantomeno dovrebbe essere il titolare a pagare i dipendenti, come è ovvio che sia “dal momento che noi lavoriamo per far guadagnare la sua azienda” spiega il dipendente del ristorante “sta sfruttando la cassa integrazione per pagarci di meno. E mi ha addirittura chiesto di non andare in ferie in agosto perché, dice, c’è troppo lavoro, anche se poi non ha soldi per pagarci regolarmente. Qualcosa non torna”.
Di certo i lavoratori che sottostanno a queste condizioni si trovano in una situazione dalla quale è difficile intavolare una trattativa. Una posizione molto scomoda e altrettanto comune su tutto il territorio nazionale.
“Abbiamo ricevuto centinaia di segnalazioni di questo tipo nel settore della ristorazione” spiega infatti il segretario Andrea Lovisetto “usano i soldi pubblici per pagare i lavoratori, è una frode allo Stato che colpisce anche gli imprenditori onesti che retribuiscono correttamente i dipendenti”.
La soluzione? Per Lovisetto la strada da seguire non è tanto quella delle ispezioni sul posto di lavoro, quanto quella dei controlli incrociati. “Basta guardare il fatturato: come può essere uguale a prima se sulla carta metà dei dipendenti erano in cassa integrazione?” Solo che perché le autorità competenti intervengano deve esserci la denuncia da parte del lavoratore, il che è alquanto improbabile vista la situazione generale.
“Qui a Verona ristoratori e dipendenti si conoscono tutti tra loro. Chi denuncia sa che non ha finito di lavorare solo in quel ristorante, ma in tutti i locali della città” sono le eloquenti parole del cuoco.
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