Quella che si sta presentando alla città di Taranto può sembrare una sciagura, se non altro dal punto di vista lavorativo, eppure potrebbe essere tutt’altro, persino una grande opportunità. L’ex Ilva, attualmente la più grande raffineria d’Europa rischia seriamente di chiudere i battenti perché ArcelorMittal, la compagnia franco-indiana, ha deciso di recedere dal contratto di affitto. In linea con questa decisione ha anche annunciato che provvederà a spegnere gli altoforni, per uno stop definitivo alla produzione di acciaio dello stabilimento tarantino.
In gioco ci sono migliaia di posti di lavoro, e quindi le famiglie che con quegli stipendi fino ad oggi ci vivevano. In gioco però non c’è solo questo, c’è anche la salute degli abitanti di Taranto, a cominciare proprio da quella di chi vive nel quartiere Tamburi, quello più esposto. Se l’Ilva si spegne a Taranto cambia tutto, e questo i tarantini lo sanno, ma non necessariamente in peggio.
Per 50 anni l’Ilva ha continuato a produrre, tra chiacchiere, malaffare e mala politica, e nel corso di tutti questi anni si è radicata sempre più in profondità la convinzione che Taranto ha bisogno di quella fabbrica, che non può farne a meno. Dal 1960 fino ad oggi gli altoforni dell’Ilva sono rimasti accesi per produrre acciaio, al servizio del Paese, ma soprattutto al servizio del Pil.
L’addio di ArcelorMittal potrebbe rappresentare un’occasione per immaginare una Taranto diversa, che rinasce dalle sue stesse ceneri. E anche se non è così semplice, sappiamo che è possibile, perché altrove è già accaduto. Ci sono esempi eclatanti su scala internazionale di come attraverso la bonifica e la riconversione immediata degli stabilimenti il volto della città può cambiare totalmente.
Il caso di Pittsburgh
Pittsburgh è una città dello Stato della Pennsylvania nel nord est degli USA, e lì fino a qualche decennio fa c’era il più grande centro della produzione siderurgica mondiale. Poi l’economica è cambiata, c’è stato il tracollo dell’industria pesante, e per Pittsburgh arrivò il momento di voltare pagina. Cosa che ha fatto nel migliore dei modi.
Tony Buda è un ex operaio delle acciaierie di Pittsburgh, ne ha raccolto la testimonianza Marzio G. Mian nel suo reportage. “Qui non si vedeva niente, i lampioni erano accesi anche di giorno, il fumo degli altiforni offuscava tutto, i fiumi erano neri e putridi” racconta l’ex operaio “poi le fabbriche hanno chiuso i cancelli e pian piano è comparso il sole. A quel punto la gente ha scoperto di vivere in una città meravigliosa, ha deciso che bisognava farla rinascere. Ed eccoci qui, con l’Economist che dichiara Pittsburgh addirittura la città più vivibile d’America“.
Quello che hanno fatto a Pittsburgh è stato indirizzare l’economia della città verso servizi e alta tecnologia. Una riconversione che l’ha poi resa la città dei trentacinque college e delle università, tra le quali ricordiamo le eccellenze di Carnegie Mellon e University of Pittsburgh, ma anche la città delle nanotecnologie, della bioingegneria.
Pittsburgh è anche hub ospedaliero guidato dall’Upmc, che è uno dei più importanti provider sanitari al mondo, all’avanguardia nel settore dei trapianti di organi, per un totale di 50mila posti di lavoro ed un giro d’affari di 5,6 miliardi di euro.
Così dal siderurgico si è passati alla produzione di componenti per la robotica, alla biomedicina, all’ingegneria nucleare, ma anche alla finanza e ai servizi. Pittsburgh è diventata un centro nevralgico in grado di produrre un giro d’affari di circa 11 miliardi di dollari l’anno.
A Pittsburgh si trova una delle sedi di Google, c’è il Pittsburgh Medical Center, nel quale lavorano circa 48 mila persone. Si pensi che lavorano nei vari istituti di medicina circa 116 mila persone, vale a dire il 10% della forza lavoro di Pittsburgh. E sempre qui, nel 2009, è stato ospitato il G20. Insomma se questa non è una città rinata non saprei quale potrebbe esserlo.
Il caso della Ruhr
L’industrializzata regione della Ruhr è quella di cui tutti abbiamo iniziato a sentir parlare quando a scuola abbiamo studiato il periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Nella regione tedesca della Ruhr sorgeva un importante polo del carbone e dell’acciaio, ma ora è tutto cambiato, e le fabbriche hanno lasciato il posto a cultura, ricerca, turismo, ecologia.
Il bacino industriale della Ruhr è stato completamente trasformato. La riconversione ha permesso la nascita intorno al fiume Emscher, un tempo usato come discarica per i rifiuti delle fabbriche, di un parco regionale lineare, oggi simbolo dell’intervento di trasformazione del polo industriale.
E chiaramente non si trattava di un intervento da poco, basti pensare che ha coinvolto qualcosa come 6.000 ettari di aree industriali. Per dismettere queste aree sono stati necessari ingenti fondi, in parte pervenuti dallo Stato, in parte grazie a finanziamenti europei di sviluppo regionale, per un costo complessivo che ha superato i 2 miliardi di euro.
Ma vediamo cosa è stato fatto esattamente. Al posto della Cockeria, dismessa nel 1992, sorge ora un percorso museale che comprende il museo della birra, il teatro dell’opera, della prosa e i musei Ostwall e Adleturm.
Come accennato poi, intorno al fiume Emscher sorge ora l’omonimo parco regionale. Una vasta area verde che si estende per oltre 320 chilometri quadrati, nata in seguito all’intervento di riqualificazione ambientale. L’Emscher Park unisce 17 Comuni ed è attraversato da sentieri pedonali e piste ciclabili.
E per quanto riguarda i posti di lavoro? In realtà la riconversione ha prodotto ottimi risultati anche da quel punto di vista, con un rilancio dell’economia locale che ha visto la nascita di 5.000 nuovi posti di lavoro. Inoltre i lavori di riconversione sono tutt’ora in corso, il che naturalmente richiede manodopera. Per questi lavori sono già stati spesi più di 6 miliardi di euro, che sono stati in parte utilizzati per la realizzazione di un complesso sistema di gestione delle acque che ne ha permesso la bonifica.
La grande opera di riconversione della Ruhr si prefiggeva l’obiettivo di renderla nuovamente attraente per gli investitori, e l’unico modo per riuscirci era valorizzare il capitale naturale e culturale disponibile, investendo sulla qualità per la realizzazione di edifici e infrastrutture.
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