Gli indici azionari dei mercati emergenti hanno cercato di rialzare la testa durante gli ultimi giorni di negoziazione del 2018, un anno piuttosto difficile per le economie in via di sviluppo, senza perdere di vista le ultime rivendicazioni del presidente Donald Trump sui “grandi progressi” nelle relazioni commerciali sino-americane.

Durante lo scorso fine settimana, Trump ha infatti twittato di aver avuto una “lunga e proficua telefonata” con il presidente cinese Xi Jinping e che un possibile accordo commerciale tra le due parti è possibile.

Nonostante tale ventata di ottimismo, nel complesso l’indice delle azioni dei mercati emergenti MSCI ha registrato comunque perdite di oltre il 16 per cento per l’intero 2018.

Il mercato ha più probabilità di rimanere messo su queste soglie, nell’attesa che vi siano ulteriori prove solide di progressi dall’incontro faccia a faccia a metà gennaio“, hanno dichiarato in una nota gli analisti della Mizuho Bank, riferendosi all’incontro USA – Cina, e rammentando come la disputa commerciale tra le due maggiori economie mondiali sia stata uno dei principali fattori che ha preoccupato i mercati finanziari per tutto l’anno.

Dopo avere acconsentito a novembre ad arrestare i dazi supplementari per poter raggiungere un accordo entro 90 giorni, un team di rappresentanti statunitensi si recherà a Pechino la settimana prossima per tenere colloqui con i funzionari cinesi.

Dando uno sguardo al mix di mercati emergenti, in un anno non particolarmente semplice, le azioni russe sono comunque state in grado di chiudere l’anno con un aumento del 12%, mentre i mercati azionari di Cina, Turchia e Sudafrica hanno chiuso il loro peggiore anno in un decennio.

Sul fronte turco, le preoccupazioni circa l’influenza del presidente Tayyip Erdogan sulla politica monetaria e sulle relazioni con gli Stati Uniti sono state placate dall’aumento del 6% dei tassi di interesse. Tuttavia, i timori sui prezzi elevati del petrolio importato continueranno ad avere un effetto ancora a lungo.

Spostandoci poi in Argentina, qui l’inflazione ha spinto ad aumentare drasticamente i tassi di interesse di riferimento – prima al 45 per cento, poi al 60 per cento – spingendo così l’economia in recessione e inducendola a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per un meccanismo di finanziamento per sostenere le sue finanze e fermare il crollo della valuta.

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