La Turchia continua a innervosire i mercati, ma gli investitori farebbero comunque bene a mantenere la calma, poiché il rischio di contagio – come invece qualche giornale sostiene – è ancora piuttosto lontano.

Chiarito ciò, è comunque opportuno cercare di comprendere come si sia giunti a questa situazione, e come potrebbe essere opportuno affrontare il contesto evolutivo. A cominciare, come giustamente sottolinea un report di Legg Mason, dalla necessità di monitorare attentamente l’odierna situazione, ma nella necessaria valutazione della Turchia quale caso isolato, motivato da condizioni preesistenti, e non certo indotte improvvisamente da fattori esogeni. “In un certo senso stiamo parlando di un danno collaterale, trattandosi di un’economia con un debito in dollari USA nel settore corporate abbastanza alto, che ora sta sperimentando i postumi di una “sbornia” dopo un prolungato periodo di crescita economica spinto da politiche non convenzionali” – afferma il comunicato della società.

Cause della crisi turca

Per gli investitori più accorti, la Turchia non è un “malato” recente, poiché occupa una posizione piuttosto vulnerabile già da diverso tempo. Le cause sono numerose. Si pensi al disavanzo delle partite correnti (che dipende da flussi di capitale molto volubili), alle turbolenti dinamiche politiche e ancora alle pressioni inflazionistiche (con preoccupazioni crescenti riguardo l’indipendenza della banca centrale turca). Pertanto, afferma Legg Mason, in altre parole i dazi e le sanzioni più recentemente indotte hanno avuto come effetto quello di amplificare un nervosismo già presente.

La Cina reagisce

In questo contesto di proliferazione di dazi, la Cina sta giocando un ruolo molto importante nello scenario attuale del commercio globale: l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump ha messo Pechino al centro delle proprie azioni, ma il gioco di forze potrebbe arrivare a risultati in attesi (d’altronde, basti considerare che gli USA comprano molto di più dalla Cina di quanto la Cina compri dagli USA).

Al di là di ciò, Pechino ha anche altre leve non tariffarie per poter mettere i bastoni tra le ruote degli Stati Uniti. Basti considerare che la Cina è oggi il maggior creditore straniero degli Stati Uniti, e che comunque il Paese asiatico ha avuto il giusto tempo per potersi preparare a un’eventuale escalation della guerra commerciale, mediante specifiche politiche di rafforzamento dell’economia domestica.

Intanto, negli USA inizia a vedersi – in particolare nel settore agricolo – qualche effetto negativo delle politiche di protezionismo che Washington ha cercato di indurre, con minori vendite e profitti ridotti. Non è un caso che il Dipartimento dell’Agricoltura USA è corso ai ripari attraverso l’annuncio un pacchetto di stimolo per gli agricoltori americani pari a 12 miliardi di dollari.

Cosa fare?

Ma cosa fare in questo contesto non certo di agevole interpretazione? Quel che appare probabile è… che è difficile stimare in che modo andrà a finire questo clima di turbolenze, se qualcuno dei due ex partner si fermerà o se invece la crisi andrà ad acuirsi.

In ogni caso, gli investitori dovrebbero andare oltre questa attuale confusione, soprattutto se hanno delle visioni di mid e long term. È insomma lecito attendersi che la volatilità rimarrà piuttosto alta nei prossimi mesi, ma uscire dall’azionario emergente a fronte di questa volatilità sarebbe sicuramente un errore e, anzi, potrebbe essere conveniente un ingresso in condizioni di ribasso.

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