La crisi della Turchia porterà ad una recessione del Paese? Secondo Anisha Goodly, Emerging Markets Portfolio Specialist, TCW, la risposta è affermativa. L’analista ritiene infatti che la Turchia è quasi certamente avviata verso una recessione e lo dice chiaramente in un report. 

L’analisi di Anisha Goodly parte dal principio. All’epoca del taper tantrum del 2013 – scrive l’analista – il mercato mise nel mirino le cosiddette “fragile five”, le cinque economie emergenti più vulnerabili: Sudafrica, Brasile, India, Indonesia e Turchia. In quattro di questi mercati sono stati implementati degli aggiustamenti, tanto che ora le discussioni sulle fragilità degli emergenti riguardano quasi esclusivamente la Turchia e l’Argentina.

Ankara riuscì a scampare al 2013 grazie al calo globale dei rendimenti e ai prezzi ridotti del petrolio. Tuttavia, a differenza della maggior parte degli altri emergenti, il Governo turco ha raddoppiato le politiche economiche non ortodosse, compromettendo l’indipendenza della Banca Centrale e perseguendo l’obiettivo della crescita a tutti i costi, pagando con una combinazione tra politiche fiscali più accomodanti e un’accelerazione delle spese extra rispetto al bilancio. Ciò ha provocato il forte aumento dell’inflazione (circa al 16% a/a) e l’aumento del deficit delle partite correnti (circa al 6,5% del PIL a inizio 2018). Allo stesso tempo, i crescenti rischi politici e geopolitici hanno disincentivato gli investimenti diretti esteri. Non sorprende dunque che il paese sia sull’orlo di una crisi in un contesto globale di riduzione della liquidità.

Sui mercati si discutono le opzioni del controllo dei capitali o di un salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale – entrambe, a nostro avviso, improbabili a meno che la situazione non precipiti di molto – e gli investitori temono un effetto domino. In genere il contagio procede lungo uno o più dei seguenti canali: una crisi di fiducia che porta a una rapida svalutazione della moneta e ai deflussi dai portafogli; un forte aumento dei default societari; un forte stress del settore finanziario. Di questi, data la dimensione moderata dell’economia turca, temiamo principalmente il deflusso di capitali dai portafogli e il contagio a livello di settore finanziario, vista la notevole esposizione delle banche europee al paese. Nel dettaglio, l’esposizione aggregata delle banche spagnole, francesi e italiane alla Turchia ammonta a 139 miliardi di dollari. Inoltre, lo stress nel sistema finanziario turco sta salendo, visto l’incremento dei default corporate negli ultimi mesi, e l’inasprimento delle condizioni finanziari probabilmente lo intensificherà.

Il bilancio della Turchia ad oggi non rappresenta una fonte di vulnerabilità, in quanto rapporto debito/Pil è inferiore al 30%. La maggiore fragilità consiste invece nel disallineamento tra i tassi di cambio delle imprese private e il potenziale impatto nella capacità di ripagare i debiti che potrebbe impattare il bilancio e, a sua volta, colpire anche il debito sovrano.

Inoltre, la Turchia rappresenta una vera eccezione nell’universo dei mercati emergenti: nel complesso, il resto degli emergenti può contare su politiche più solide, su condizioni di riserve monetarie migliori e dunque su strumenti per assorbire gli shock esterni. Persino l’Argentina di recente si è assicurata un pacchetto da 50 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale per far fronte al fabbisogno finanziario sovrano del prossimo biennio.

Ankara ora deve intraprendere diverse iniziative, per ridurre la percezione del rischio che i mercati nutrono nei confronti dell’economia turca:

  • Anzitutto, serve una risposta solida in termini di politica monetaria, con rialzi aggressivi dei tassi da parte della Banca Centrale turca per placare l’inflazione. Nel breve termine, le autorità turche hanno implementato delle mosse tecniche per fornire stabilità di breve periodo e ridurre le posizioni speculative, ma ciò non è sufficiente per affrontare il problema sottostante.
  • Secondo, un ampio e credibile aggiustamento fiscale (da comunicare nel dettaglio e da implementare con rapidità) favorirebbe le prospettive di un “soft landing” per l’economia e incoraggerebbe un processo di deleveraging più gestibile. Una crescita più lenta, ma con un maggiore contributo delle esportazioni, aprirebbe le porte a un aggiustamento esterno sostenibile, purché supportato da politiche ortodosse da parte di Governo e Banca Centrale. Tutto ciò sarebbe più semplice, se la Turchia chiedesse aiuto al FMI, ma per ora il Presidente Erdogan è contrario a questa opzione.
  • Infine, la Turchia potrebbe accogliere la richiesta degli Stati Uniti di liberazione del Pastore Andrew Brunson in cambio di un allentamento delle sanzioni. Le ultime dichiarazioni di Erdogan hanno lasciato intendere che non si arriverà a una risoluzione della questione a breve, ma su questo fronte il dialogo è costante.

In conclusione – evidenzia il report – crediamo che i fondamentali dei mercati emergenti siano sufficientemente solidi da agire da cuscinetto in caso di eventuale contagio, ma potrebbe persistere una certa debolezza fino a quando non ci sarà maggiore chiarezza sulla strada che intraprenderà la Turchia. Di conseguenza, è possibile che assisteremo a un certo grado di stress, soprattutto degli asset di Sudafrica e Indonesia e a livello di liquidità, ma nel complesso pensiamo che i rischi di un vero contagio siano limitati. Generalmente, i sell-off di mercato guidati dalla liquidità tendono a durare poco e alla fine presentano anche opportunità interessanti, in quanto i policymaker poi reagiscono alle pressioni di mercato e ai timori di contagio.

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