L’estate 2018 potrebbe passare alla storia finanziaria (anche) per l’avvento dei dazi americani e dalla risposta della Cina: un contesto che in altri periodi avrebbe potuto far ergere l’oro come safe haven preferenziale, e che invece ora sembra poter mettere in minore luce il lingotto. Insomma, in una stagione chiaramente dominata dalla volatilità, l’oro non sembra essere in grado di svolgere fino in fondo la sua funzione di bene rifugio. Ma per quale motivo?
A rispondere è Nevine Pollini, Equity Analyst di Union Bancaire Privee (Ubp), secondo cui malgrado la predominante incertezza sulla possibilità di una guerra commerciale ancora più grave di quanto finora conosciuto, l’oro potrebbe rimanere sotto pressione, come peraltro già avviene da metà giugno a questa parte. Il lingotto non sta insomma affatto agendo come bene riugio come invece dovrebbe fare in tempi di incertezza politica ed economica.
“Il motivo alla base di questo trend è il fatto che le attuali misure protezionistiche sono messe in ombra da preoccupazioni relative a tassi in rialzo a livello globale in risposta allo slancio della crescita che, seppur moderato, è ancora in aumento” – afferma Pollini, che precisa poi come l’oro sia stato tenuto a freno anche da un’altra determinante, quale l’allentamento delle tensioni geopolitiche, con Trump e Kim Jong-un che hanno siglato un accordo per la denuclearizzazione della Corea del Nord.
In particolar modo, l’analista di Ubp ci ricorda come buona parte dei dati sta suggerendo che l’attività statunitense è in linea per centrare i propri target, considerato sia un mercato del lavoro che appare molto solido, sia una situazione fiscale di riforma basata su molti supporti e stimoli. Ancora, l’indicatore dei prezzi basato sulla spesa al consumo personale ha raggiunto l’obiettivo del 2%, suggerendo forse alla Fed un’accelerazione sul percorso di rialzo dei tassi: secondo le stime, a questo punto i ritocchi verso l’alto potrebbero essere due, uno a settembre e uno a dicembre. Di contro, la Bce dovrebbe agire in maniera opposta, lasciando i tassi fermi più a lungo del previsto.
Come se quanto sopra non fosse sufficiente, a pesare sull’oro è anche un significativo rallentamento della domanda fisica: quella dalla Cina – il più grande consumatore del metallo al mondo – è in contrazione, a causa della svalutazione dello yuan in risposta alla difficile condizione commerciale con gli Stati Uniti. Infine, l’oro è colpito negativamente anche da i deflussi dagli Etf, con gli investitori in fondi sempre meno interessati a questo asset.
Chiarito quanto sopra, l’esperto di Ubp precisa come “a nostro avviso l’oro potrebbe continuare il suo trend al ribasso qualora si dovesse raggiungere un accordo commerciale prima che il conflitto si intensifichi trasformandosi in una disputa più accesa e più dannosa; sappiamo che il presidente Trump ha dei precedenti nel prendere posizioni estreme per poi muoversi invece in direzione di una negoziazione, per cui potrebbe accettare un compromesso dell’ultimo minuto. Manteniamo pertanto un outlook prudente sull’oro, che secondo noi nei prossimi mesi rimarrà probabilmente in un range tra i 1.200 e i 1.300 dollari”.
Ad ogni modo, come riporta Milano Finanza, Pollini precisa altresì che “tuttavia non crediamo che il metallo giallo debba essere completamente evitato: questo infatti potrebbe ricevere una spinta da un rimbalzo tecnico, con gli asiatici che, in cerca di occasioni, potrebbero riapparire una volta che avranno la sensazione che questo metallo prezioso avrà toccato veramente il fondo. Inoltre, inaspettatamente, malgrado i dati statunitensi robusti e la recente impennata del dollaro, i rendimenti Usa hanno riportato un calo”.
Insomma conclude l’esperto, probabilmente tale trend riflette le previsioni di un incremento dei tassi Fed meno aggressivo delle attese che si potrebbe verificare se la guerra commerciale dovesse diventare peggiore del previsto: una condizione che, se osservata, potrebbe porre fine al declino dell’oro.
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