Ad aver influenzato i mercati valutari non è – come ci si attendeva alla vigilia – quanto ha dichiarato il presidente della Federal Reserve, Powell, quanto piuttosto quello che non ha detto. Powell ha infatti riconosciuto che il recente picco dei rendimenti “è stato notevole e ha attirato la sua attenzione”, ma si è tuttavia limitato ad affermare ancora una volta l’impegno di lungata del proprio istituto verso la scelta di una policy accomodante, la cui durata non è preventivabile con esattezza, ma sarà dettata dai progressi sull’occupazione e dalle condizioni finanziarie generali.
Se fin qui tutto era nelle attese, ciò che ha costituito un market mover è stato in verità quel che non ha detto. Powell infatti non ha fatto proclami per “respingere” la recente volatilità del mercato obbligazionario, né ha accennato a istituire un “controllo della curva dei rendimenti” per contenere l’aumento degli stessi, o ancora una possibile inversione di marcia negli acquisti di obbligazioni per smorzare l’aumento dei rendimenti nella parte più lunga della curva. Ancora, Powell non ha preso posizione sui requisiti di leva finanziaria, che scadono il 31 marzo e che, in caso di assenza dell’attesa deroga, implicherebbe alle banche di detenere più capitale.
Queste e altre “mancanze” nel discorso di Powell sono ora leggibili con il periodo di silenzio tipico della Fed, la cui riunione del Federal Open Market Committee (FOMC) è prevista per il prossimo 17 marzo. Da sabato fino al giorno dopo la riunione, è previsto che il personale della Fed si astenga dall’esprimere le proprie opinioni o dal fornire analisi sugli sviluppi macroeconomici o finanziari o su questioni di politica monetaria attuali o future. Ovvero, significa che ci attendono due settimane di incertezza.
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