A margine delle ultime riunioni di politica monetaria di FED e BCE, Tyler Tucci, Vice President Fixed Income, Responsible for the evaluation of global monetary policies, TCW, ha formulato un interessante commento sull’evoluzione delle azioni delle due note banche centrali, e i loro effetti di breve e di medio termine.
Nell’interessante analisi pubblicata Tucci afferma come dal FOMC dello scorso giugno sia emerso un messaggio discretamente ottimistico, e orientato a un restringimento monetario, che ha evidenziato un grado elevato di soddisfazione nei confronti del contesto economico e del ritmo di normalizzazione della politica monetaria.
In particolar modo è stato rammentato come sia stato preso atto del costante calo del tasso di disoccupazione, così come dell’incremento della spesa delle famiglie. È anche per questo motivo che il FOMC ha dichiarato di attendersi ulteriori aumenti del costo del denaro, pur graduali, coerenti con un’espansione costante, un mercato del lavoro solido e un’inflazione che si prossima al target del 2%. Complessivamente, emerge dalla FED l’impressione che si procederà con almeno 8 rialzi dei tassi fino al 2020, con 4 aumenti (compresi quelli già effettuati) per il 2018, 3 nel 2019 e 1 nel 2020.
E da questa parte dell’Atlantico? La BCE – rammentava Tucci – “ha deciso di non rimandare ulteriormente la propria decisione sul QE, annunciando un tapering breve di tre mesi che porterà a chiudere il programma di acquisto asset a dicembre. La riduzione degli acquisti mensili della portata di 15 miliardi di euro coinciderà con i quasi 12 miliardi di euro di reinvestimenti del QE previsti per lo stesso mese. L’annuncio non ha provocato particolari reazioni di mercato, a differenza del messaggio lanciato dal Presidente Draghi sui tassi, nel momento in cui ha dichiarato di non aspettarsi cambiamenti nei tassi almeno fino all’estate 2019”.
Peraltro, rammenta ancora l’esperto, non si tratterebbe di una promessa su un aumento del tasso dei depositi da qui a un anno, quanto di un’indicazione sul fatto che tra la fine del quantitative easing e il primo aumento del costo del denaro potrebbero passare almeno 6 mesi, forse 9. In questo periodo la Banca avrà tutto il tempo per poter valutare la prestazione dell’economia e scegliere se un inasprimento monetario sarà o meno appropriato.
“Certamente i mercati sanno bene che l’ultima conferenza di Draghi prima della fine del mandato si terrà il 24 ottobre 2019, motivo per cui l’attenzione ora si focalizzerà sul capire dalle sue parole se il Presidente riuscirà o meno ad attuare un aumento dei tassi prima di lasciare l’incarico” – aggiunge l’analista. “Nel frattempo, le politiche monetarie dei policymaker delle economie avanzate continuano a rappresentare una fonte di sgomento per i Mercati Emergenti. Quando la parte breve della curva inizia a salire nelle economie avanzare, i capitali in dollari diventano più scarsi e più costosi, e il costo del debito aumenta per i debitori emergenti aumenta. Questo legame sembra essersi palesato in giugno, in quanto l’aumento degli spread e i deflussi di capitali hanno toccato livelli comparabili a quelli toccati all’epoca del taper tantrum. Naturalmente, l’impatto si è sentito nelle economie emergenti che dipendono maggiormente dai finanziamenti stranieri, come la Turchia, la Malesia, l’Argentina e il Messico. Inoltre, i movimenti a livello di mercati dei tassi locali potrebbero essere stati esacerbati dalla mancanza di politiche monetarie credibili, per affrontare l’inasprimento delle condizioni di liquidità a livello globale e il deprezzamento delle valute locali” – conclude.
Dunque, se la prima metà dell’anno è andata in archivio con risultati in linea con le attese, le aspettative per la seconda marte sono più varie e incerte.
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