Il confine tra l’attività che l’artista svolge in maniera occasionale, e quella di colui che invece la esercita in modo professionale non sempre è così netto e facilmente riconoscibile, persino dallo stesso diretto interessato che, come spesso accade, non sa effettivamente in che modo la legge inquadra la sua attività artistica e prevede di tassare gli utili conseguiti.

Il nodo della questione sta nella peculiarità del bene oggetto della transazione nel caso della vendita di opere d’arte. In questi casi infatti ci sono diversi aspetti fiscali che vanno presi in considerazione, e la differenza è costituita dal modo in cui l’attività dell’artista, e della vendite in particolare, si svolge, facendo una distinzione tra attività esercitata in modo professionale e attività svolta in maniera occasionale.

Se si tratta di un’attività che viene svolta professionalmente a titolo di mercante di opere d’arte o antiquario, si parla sempre di redditi d’impresa anche nel caso in cui non sia stata costituita una vera organizzazione imprenditoriale, come stabilito dall’articolo 2195 del codice civile.

In questo primo caso si parla di redditi d’impresa e quindi si applicano le previsioni normative previste dal DPR 22/12/1986.

Nei casi invece in cui si tratta di un’attività che non viene svolta in maniera abituale si possono distinguere due casi diversi:

  • il caso in cui, saltuariamente, si acquistano e si vendono opere d’arte per fini di lucro
  • il caso in cui l’opera d’arte è un bene del quale si è entrati in possesso attraverso un ritrovamento in casa, un’eredità o una donazione.

Quando si parla di redditi diversi e quando di redditi d’impresa?

Quando gli utili conseguiti sono il risultato della vendita di opere d’arte, per capire che tipo di tassazione viene applicata è necessario verificare se sussistono i presupposti perché si possa parlare di compravendita saltuaria per fini di lucro, in quanto in tal caso si parlerebbe di redditi diversi ex articolo 67 c.1 l.1 TUIR, ma ad alcune condizioni ben precise.

A chiarire questi aspetti è intervenuta una sentenza della Cassazione, la n. 21776 del 20/10/2011 con la quale viene affermato che si devono escludere: 

“quelle condotte che si esauriscono nel semplice atto traslativo del diritto a titolo oneroso, atteso che la predetta nozione implica necessariamente una pluralità di atti coordinati e diretti alla realizzazione del medesimo scopo che può trovare riscontro nel caso in cui si accerti la stretta relazione funzionale – verificata in base a concreti elementi circostanziali tra l’atto di acquisto e quello successivo di vendita, ovvero anche nel compimento di una serie di atti intermedi volti ad incrementare il valore del bene funzione della successiva vendita”.

Ulteriori sentenze della Corte di Cassazione, per l’esattezza le n. 2711/2006 e n. 8196/2008, hanno messo l’accento sull’aspetto ‘importi’ in quanto se gli utili generati attraverso le compravendite di oggetti di antiquariato risultano rilevanti allora, indipendentemente dalla frequenza con cui queste si concludono, avranno rilevanza fiscale. 

In base alla precedente normativa fiscale invece venivano assoggetate a Irpef “le plusvalenze conseguite mediante operazioni poste in essere con fini speculativi e non rientranti tra i redditi d’impresa” come stabiliva l’articolo 76 DPR n. 597/1973. Si consideravano allora, per il principio di presunzione assoluta, eseguite con finalità speculative tutte le compravendite di oggetti d’arte, di antiquariato e in genere opere e beni da collezione, in tutti quei casi in cui il lasso di tempo intercorso tra l’acquisto e la vendita non superava i due anni.

Quando si tratta di vendita derivante dall’acquisizione del bene in maniera casuale si parla di un realizzo patrimoniale non rilevante redditualmente, e rientra quindi tra i “redditi diversi” cioè quelli che derivano da attività non commerciali che pertanto non vengono esercitate in maniera abituale.

Qual è dunque la linea di demarcazione tra l’attività svolta a titolo di impresa e quindi in maniera abituale e continuativa, e l’attività svolta in maniera amatoriale? Si tratta di una distinzione spesso sfuggente, infatti in molti casi sia la giurisprudenza sia la prassi si sono trovate a dibattere sulla qualifica di venditore di opere d’arte.

Un chiarimento nel merito è arrivato anche dall’Agenzia delle Entrate che con la Risposta n. 5 del 24/01/2001, circa il trattamento fiscale da applicare nel caso di utili realizzati mediante la vendita all’asta di opere ricevute a titolo di liberalità da parte di una associazione senza scopo di lucro, ha stabilito quanto segue:

“L’operazione prospettata non realizza una attività commerciale in quanto non è ravvisabile nella stessa l’elemento dell’intermediazione nello scambio dei beni ma una semplice operazione di dismissione patrimoniale. Ciò beninteso, a condizione che la vendita all’asta non richieda l’impiego di mezzi organizzati professionalmente né assuma rilevanza autonoma nell’ambito di una iniziativa molta a liquidare beni acquisiti nella sfera della attività istituzionale propria dell’associazione”.

Il nostro ordinamento tributario prevede l’obbligo del monitoraggio fiscale per quelle opere d’arte e collezioni che si detengono oltre frontiera e sono considerati investimenti. In questo caso si parla di beni di natura patrimoniale che restano sotto monitoraggio a prescindere dal fatto che producano reddito o meno.

Per assolvere a questo obbligo il contribuente è chiamato a compilare il quadro “RW” presente nella dichiarazione dei redditi. Inoltre sempre nello stesso riquadro devono essere indicati, insieme alle attività estere di natura finanziaria, anche gli investimenti all’estero di altra natura, indipendentemente dalla effettiva produzione di redditi imponibili in Italia.

Vanno altresì indicate le attività patrimoniali detenute per il tramite di oggetti che si trovano in Paesi diversi da quelli collaborativi ma anche in entità giuridiche italiane o estere diverse dalle società nel caso in cui il contribuente risulti “titolare effettivo” delle suddette attività.

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