Il nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel corso del suo discorso in Parlamento ha toccato tra gli altri temi anche quello della riforma delle pensioni. Sappiamo che l’ultima legge è stata quella di Elsa Fornero, che prese appunto il suo nome, ma successivamente con l’insediamento del primo governo Conte sostenuto da M5s e Lega è stata introdotta la misura sperimentale di Quota 100.

Quota 100 però proprio perché è una misura sperimentale, ha anche una scadenza, che è ormai molto vicina visto che la sua validità decade alla fine del 2021. Nel 2022 quindi si dovrebbe tornare all’età pensionabile stabilita dalla legge Fornero, a meno che il governo di Mario Draghi non provveda ad elaborare la tanto attesa nuova riforma delle pensioni.

L’idea di mettere definitivamente da parte Quota 100 sembra aver finalmente convinto anche Matteo Salvini, che ora sostiene il nuovo esecutivo insieme ai suoi ex alleati di governo dei 5 Stelle e a tutto il centrosinistra.

Quota 100 vicina alla scadenza

il periodo per il quale era prevista la possibilità di andare in pensione con Quota 100 termina il 31 dicembre 2021, ma come funziona questo meccanismo per il pensionamento anticipato introdotto dal primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte?

La norma viene introdotta con l’articolo 14 del decreto legge 4 del 2019, ma di fatto si tratta di un sistema per il pensionamento che si sovrappone a quello della legge Fornero senza scalfirla. Una volta giunta a scadenza infatti Quota 100 verrà automaticamente rimpiazzata dal precedente sistema.

Il periodo di sperimentazione triennale di Quota 100 prevedeva la possibilità di andare in pensione con un’età anagrafica di 62 anni ed un minimo di 38 anni di contributi, o anche con altre combinazioni di età anagrafica e contributi a patto che si arrivi comunque a quota 100 appunto.

Per Quota 100 erano stati stanziati in tutto 21 miliardi di euro, ma le adesioni sono state persino inferiori alle attese con 242 mila domande presentate nei primi due anni contro le 600 mila che erano state preventivate, cioè una media di 300 mila domande l’anno. Si è quindi ottenuto un ricambio dei lavoratori solo del 40% secondo i calcoli della Corte dei Conti.

La prima riforma delle pensioni, la riforma Amato del 1992

A mettere mano al sistema pensionistico sono stati diversi governo nel corso degli ultimi 30 anni, ma la prima riforma è stata quella operata dal governo Amato nel 1992. All’epoca l’età pensionabile era di 55 anni per le donne e di 60 anni per gli uomini, che furono portati rispettivamente a 60 anni e 65 anni, portando la contribuzione minima da 15 a 20 anni.

Restava ancora in vigore il sistema retributivo, che per il calcolo dell’assegno della pensione tiene conto degli ultimi stipendi ricevuti, ma veniva modificato il periodo di riferimento che passava da quello degli ultimi 5 anni di lavoro alla media degli ultimi 10 anni.

Con la riforma Dini del 1995 si passa al sistema contributivo

Nel 1995 il governo Dini ha messo nuovamente mano alle pensioni degli Italiani segnando il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo. Per i lavoratori assunti dopo il 1995 il sistema di calcolo per l’assegno pensionistico sarebbe stato quindi quello contributivo, mentre i lavoratori che avevano già maturato almeno 18 anni di contributi il calcolo sarebbe stato fatto interamente sul sistema retributivo.

Con il nuovo sistema di calcolo l’assegno non dipendeva più dallo stipendio percepito negli ultimi 10 anni, bensì dai contributi effettivamente versati dal lavoratore nel corso degli anni. Con la riforma Dini inoltre veniva introdotta la flessibilità nell’età di uscita dal lavoro a fronte di un ritocco dell’assegno, e viene istituita la gestione separata Inps per professionisti e co.co.pro.

La riforma Maroni del 2005

Con la riforma delle pensioni del 2005 operata dall’allora governo Berlusconi, il ministro della Lega Nord Roberto Maroni dà spazio alla previdenza complementare per compensare il sostanzioso ridimensionamento degli assegni pensionistici dovuto alla riforma Dini.

Con la riforma Maroni viene introdotto infatti il “tacito consenso” che faceva confluire il TFR automaticamente nel sistema di previdenza complementare a compensare lo squilibrio determinato dalla sforbiciata dovuta al calcolo dell’assegno con il sistema contributivo.

Fare dei calcoli esatti in questo caso non è facile, ma si stima che con il sistema retributivo in vigore fino al 1995 l’assegno pensionistico arriva ad un importo pari all’80% circa dello stipendio, mentre in seguito, con il sistema retributivo, si scendeva al 50%.

Si rendeva quindi necessario andare a compensare la pensione di anziantità attraverso un sistema pensionistico complementare, e per questo con la riforma Maroni furono anche introdotti degli incentivi per chi decideva di continuare a lavorare.

La legge Fornero e l’ulteriore innalzamento dell’età pensionabile

Se fino al 1992 si andava in pensione a 55 anni per le donne e 60 anni per gli uomini, e con la riforma Dini si è passati a 60 e 65 anni, con la riforma Fornero l’età pensionabile è stata innalzata ulteriormente fino a 67 anni a partire dal 2019.

La legge Fornero risale al governo di Mario Monti del 2011, e fu uno dei passaggi obbligati dall’Ue nel rispetto delle norme di austerity che dovevano aiutare il Paese a tenere in ordine i conti pubblici e sotto controllo il rapporto deficit/Pil, coi risultati estremamente deludenti che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Fatto sta che con il Salva Italia di Mario Monti di certo si è salvato ben poco, e tra le altre cose a non salvarsi ricordiamo anche la sanità pubblica vittima di un vero e proprio saccheggio sempre in nome dell’austerity.

Con la riforma Fornero comunque si segna il passaggio definitivo al sistema contributivo anche per quei lavoratori che erano rientrati nei regimi misti. L’anzianità contributiva minima per andare in pensione resta quella di 20 anni, ma l’età pensionabile viene spostata appunto a 67 anni.

Uno degli effetti tutt’altro che positivi di questa riforma che comunque sarebbe entrata in vigore nel 2019 è quello dei cosiddetti esodati, cioè quei circa 350 mila lavoratori a un passo dalla pensione che però con l’arrivo della legge Fornero si sono trovati un una specie di limbo senza stipendio né pensione, in seguito tutelati attraverso le clausole di salvaguardia.

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