A partire dal 17 settembre, in seguito ad una sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, i commercialisti saranno gravati di nuovi obblighi riguardo la dichiarazione dei redditi dei contribuenti. In particolare, secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 26087 del 16 settembre 2020, i commercialisti saranno tenuti ad “auditare” l’F24 per assicurare che il contribuente non abbia intenzione di frodare il fisco.

Il principio su cui si fonda la nuova normativa è “non poteva non sapere”, ed implica di fatto nuovi obblighi per i commercialisti. Si tratta in realtà di due sentenze, entrambe però agiscono nella medesima direzione, cioè verso una responsabilità solidale del commercialista. Confermano inoltre il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, disposto ai danni di altrettanti professionisti, indagati per concorso in reati fiscali.

Cosa dice la legge circa le responsabilità dei commercialisti

Gli art. 2222 e ss c.c stabiliscono che il commercialista ha una responsabilità verso il suo cliente. Infatti nel momento in cui il contribuente conferisce incarico al proprio commercialista, si instaura tra i due un rapporto che attribuisce al creditore (cliente) la pretesa di esigere lo svolgimento dell’attività per cui lo retribuisce, vale a dire quella oggetto del contratto stipulato.

In termini più generali ne deriva che il consulente fiscale ha una responsabilità di tipo contrattuale nei confronti del contribuente proprio cliente.

La disciplina civilistica non è l’unica a vincolare il commercialista nell’adempimento degli obblighi a suo carico, infatti c’è anche la normativa di natura più strettamente tributaria, stabilita dai D.Lgs 18 dicembre 1997 n.472, che prevede l’attribuzione di sanzioni amministrative a carico diretto del professionista che si renda colpevole di violazioni di disposizioni di carattere fiscale.

Ora, con la recente sentenza della Corte di Cassazione, abbiamo un inasprimento delle pene. Si passa infatti dalla semplice sanzione pecuniaria, ad una penale che può arrivare fino alla confisca.

Nello svolgimento dell’attività intellettuale, il commercialista nella qualità di consulente fiscale avrà un’obbligazione di mezzi nel caso di predisposizione della dichiarazione dei redditi. Pertanto un eventuale inadempimento da parte sua dovrà essere desunto non dal mancato raggiungimento del risultato utile, cioè quello di evitare accertamenti, ma rientrerà nella fattispecie del dovere di diligenza.

Le cose cambiano però nel caso di trasmissione telematica della dichiarazione, per via dei caratteri meramente materiali che ne sono propri, deve essere ritenuta espressiva invece di ‘obbligazione di risultato’.

Il commercialista sarà al contempo tenuto in ogni caso ad agire nel rispetto del principio della diligenza, come stabilito dall’art. 1176, comma 2, c.c. Secondo la normativa l’attività professionale svolta dal commercialista dovrà essere sempre improntata sul massimo scrupolo.

Fino alla sentenza del 16 settembre quindi, nel caso in cui il professionista non poneva la diligenza media nello svolgimento della sua attività, la sua responsabilità era disciplinata dai comuni principi della responsabilità contrattuale. Il professionista rispondeva pertanto, oltre che per il dolo, per la colpa lieve, ma a partire dal 17 settembre ne risponde non solo in ambito civile ma anche penale.

La prima sentenza della Corte di Cassazione

La prima sentenza della Corte di Cassazione arriva nell’ambito di una indagine per false dichiarazioni Iva. Si tratta del primo caso, con sentenza n. 26089/2020, in cui il giudice ha disposto la misura cautelare, peraltro verso più soggetti coindagati, per il consultente fiscale e commercialista delle società riconducibili agli altri imputati.

Era stato promosso ricorso in sede di legittimità, lamentando una violazione di legge e apparente motivazione per quel che riguardava la valutazione del cosiddetto fumus commissi delicti, vale a dire delal probabilità effettiva di consumazione del reato.

La Corte di Cassazione però ha ritenuto infondata tale doglianza, affermando invece che la valutazione operata dal Tribunale del Riesame era corretta, con le ragioni su cui si basava la decisione sulla misura del sequestro ampiamente illustrate.

La Suprema Corte afferma che dalle risultanze istruttorie emerge la costituzione di un meccanismo fraudolento in cui erano coinvolte ben 24 società riconducibili ai medesimi soggetti, società le cui sedi erano quasi sempre inesistenti, e ciò strideva col fatto che queste avevano rappresentato nelle dichiarazioni Iva rilevanti crediti d’imposta, che infatti sono poi risultati privi di giustificazione alcuna.

Una frode per la riuscita della quale il consulente delle società aveva fornito un importante contributo. Era dallo studio del commercialista in questione che arrivavano infatti le false dichiarazioni Iva inviate telemtaticamente, sulle quali era apposto il visto di conformità.

È dunque accaduto che un professionista chiamato a far rispettare le norme fiscali, ha di fatto omesso i dovuti controlli in presenza di palese dichiarazione mendace, validando la pratica senza trattenere copia della documentazione contabile.

La seconda sentenza della Corte di Cassazione

La seconda sentenza è la n. 26087/2020, la quale conferma il sequestro preventivo disposto nell’ambito dell’indagine a carico di una pluralità di indagati, riguardante le somme di denaro sui conti correnti intestati a loro stessi, e alla Spa riconducibile ai medesimi soggetti, fino al raggiungimento della somma individuata quale importo complessivo delle imposte non versate per via della commissione del reato di indebita compensazione.

Un delitto questo che era stato ascritto, a titolo di concorso, anche in capo al commercialista, che ricopriva il ruolo di presidente del collegio sindacale della società di riferimento e al contempo anche quello di professionista intermediario.

Era stato infatti il commercialista ad aver contribuito all’attuazione del sistema di illecita estinzione di debiti tributari della società servendosi in compensazione di crediti che invece non erano mai stati maturati.

I soggetti avevano infatti inviato i modelli F24 per la compensazione dei tributi dovuti dalla società con i crediti risultati inesistenti proprio attraverso il consulente condannato a titolo di concorso.

Le ragioni poste a fondamento della decisione cautelare rispetto alla posizione di tale indagato sono state, secondo la Suprema Corte, ampiamente illustrate dal Tribunale del Riesame di Catania. Si era quindi provveduto ad evidenziare in particolare come fosse impensabile che il commercialista avesse svolto il proprio ruolo nell’ambito della frode inconsapevolmente.

Era infatti impossibile che egli avesse adempiuto ai compiti per i quali era stato interpellato dai soggetti, senza conoscere l’obiettivo illecito perseguito, specie se si conseidera che aveva avuto modo naturalmente di consultare tutta la documentazione del caso, che è risultata in sede di indagine, carente e irregolare.

Per tali considerazioni si è quindi giunti a ritenere configurabile, in questa fase specifica, il concorso del professionista nel reato di indebita compensazione, quantomeno in termini di dolo eventuale.

Il significato delle due sentenze della Corte di Cassazione

Quel che si evince in maniera lampante dalle due sentenze della Corte di Cassazione è che la legge si pone in modo chiaro e molto duro rispetto alle frodi fiscali, il che comporta degli obblighi non indifferenti per il commercialista, che come visto può essere chiamato a rispondere del proprio operato in sede penale.

Il professionista che valida e trasmette all’Agenzia delle Entrate domande, versamenti od altra documentazione mendace, rischia non solo la condanna penale, ma anche il sequestro del patrimonio personale, anche in quei casi in cui il disegno criminale non è stato ideato da lui in prima persona bensì dal suo cliente.

Il commercialista in questione risponde quindi come concorrente nel reato e a titolo di dolo eventuale. Occorre che vi sia però il presupposto che il professionista, operatore del settore e pertanto conoscitore delle dinamiche sottese alla complessa operazione tributaria realizzata, abbia adempiuto all’incombente demandatogli rimanendo all’oscuro dell’obiettivo illecito che si mirava a conseguire.

In uno dei due casi della fattispecie avendo anche consultato la documentazione, nell’altro avendo omesso il controllo previsto dagli obblighi definiti dall’art. 2403 cod. civ.. Obblighi che non si esauriscono nel prestare aprioristica fiducia in tutte le operazioni o comunicazioni più o meno formali dell’amministratore della società, ma comprendono anche un lavoro di costante vigilanza rispetto alla corretta osservanza della legge e dello statuto, ai principi di corretta amministrazione e in particolare all’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e al suo corretto funzionamento.

Entrambe le sentenze, si osservi, vanno in una direzione di completa accettazione della normativa europea, la cosiddetta direttiva PIF.

Cosa dice la direttiva PIF

Si tratta di una direttiva europea di lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione Europea. In Italia il D.Lgs. n. 75/2020 che attua la direttiva 2017/1371 (direttiva PIF) viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 15 luglio 2020.

Il provvedimento contiene diverse novità, tra cui l’ampiamento del catalogo dei reati tributari per i quali viene considerata responsabile anche la società, si parla quindi di responsabilità ai sensi dei D.Lgs 231/2001. Ora sono inclusi anche i delitti di dichiarazione infedele, di omessa dichiarazione e di indebita compensazione.

Il decreto prevede inoltre di punire anche le ipotesi di delitto tentato (non solo consumato dunque) per i reati fiscali che presentano l’elemento della transazionalità, nei casi in cui l’imposta IVA evasa non è inferiore a 10 milioni di euro.

Sarà quindi cura del commercialista o del professionista intermediario che si occupa delle dichiarazioni fiscali per conto delle società accertare attraverso un attento controllo che le operazioni fiscali siano regolari, sia al fine di tutelare gli interessi del cliente che se stesso.

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