Il forte calo del prezzo del bitcoin ha portato sotto i riflettori la questione della sopravvivenza dei miner più piccoli. L’estrazione e la validazione delle transizioni della prima criptovaluta sono ormai affare esclusivo di pochi grandi aziende?
A far rientrare l’allarme ci pensa un report della società di ricerche Diar, che questa volta si è concentrata sullo stato dell’industria del mining nel 2018.
“I minatori anonimi hanno chiuso dicembre dopo aver risolto un enorme 22% del totale dei blocchi, contro il 6% dell’inizio dello scorso anno. La rete Bitcoin ha attualmente meno probabilità di subire un attacco, dato che le pool controllate da BTC.com hanno perso il dominio sulla rete”, si legge nelle righe introduttive dello studio.
Il maggiore contributo da parte dei miner più piccoli ha comportato la diminuzione del peso di alcuni dei nomi più prominenti del settore.
“All’inizio dello scorso anno, le mining pool guidate da Bitmain, così come ViaBTC, in cui la società di hardware ha investito, controllavano il 53% dell’hash power delle reti. Il 2019 è iniziato con il 39%“, spiegano gli esperti di Diar. E questa è una buona notizia per la rete Bicoin e la sua tanto decantata decentralizzazione, spiega Anatoliy Knyazev di Exante, secondo cui “la perdita di popolarità dei colossi del mining sconfessa la teoria secondo cui l’intero settore rappresenti una forma di monopolio naturale”. È comunque vero che l’assottigliarsi della profittabilità del mining di bitcoin ha provocato la scomparsa di tante aziende di piccole e medie dimensioni, nonché il ridimensionamento di alcuni fra i top player.
Il caso più eclatante è proprio quello di Bitmain, che in poco più di un mese ha chiuso uffici in Israele e Olanda, oltre a sospendere le attività della sua mining farm in Rockdale, Texas. Ad agosto dello scorso anno la società cinese annunciava che la sua sede operativa negli Stati Uniti avrebbe portato 400 posti di lavoro attraverso un investimento di 500 milioni di dollari.
A cura di Matteo Oddi
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