Oggi le prospettive di adozione delle criptovalute appaiono più che mai confinate al reame della speculazione pura, un gioco dove il banco che vince sempre è occupato da balene voraci e trading bot.
L’era dei sistemi di pagamento che scavalcano banche e autorità centrali sembra farsi attendere più del previsto. La narrazione degli imperdibili treni epocali fatica a stare in piedi. La rivoluzione annunciata, pronta a fare piazza pulita di istituzioni e paradigmi prossimi alla pensione anticipata, non è proprio dietro l’angolo.
Le cifre parlano chiaro.
Quest’anno, dopo aver superato gli 830 miliardi di dollari all’inizio di gennaio, il comparto crypto è andato contraendosi sempre di più, fino a registrare praticamente un dimezzamento della capitalizzazione di mercato totale nell’ultimo mese (da 210 a 110 miliardi di dollari, al momento della stesura).
A questo si aggiunge il calo dell’80% dell’utilizzo del bitcoin tra commercianti e payment processor tra gennaio e settembre 2018, come mostrato dai dati di Chainalysis.
Anatoliy Kynazev di Exante descrive la situazione attuale come “un periodo di assestamento, che potrebbe estendersi benissimo a tutto il 2019, dopo il ciclo di boom e bust più rapido di sempre”.
In un contesto simile, celebri evangelizzatori del settore alla Roger Ver (soprannominato “Bitcoin Jesus”) rischiano di fare più la figura di venditori di miraggi che di visionari, quando per esempio proprio quest’ultimo afferma che per l’ecosistema delle criptovalute “il futuro è più luminoso che mai” (in un’intervista rilasciata a Bloomberg).
Di buono c’è che questo scenario, depurandosi progressivamente di ogni euforia residuale, offre una buona occasione per meditare sulla natura reale dei crypto asset e, soprattutto, sul loro effettivo campo d’applicazione.
A questo proposito, una chiave di lettura interessante viene offerta da Brian Armstrong, co-fondatore e amministratore delegato di Coinbase, la più importante piattaforma di scambio di criptovalute negli Stati Uniti.
Di recente Armstrong ha scritto sul suo blog che le valute digitali verranno ampiamente usate nell’ambito della realtà virtuale (VR).
“La ragione è semplice”, dice l’imprenditore. “Quando le persone operano in mondi virtuali, non ha senso usare la valuta di un Paese. Persone provenienti da tutto il mondo si riuniranno in questi spazi virtuali, e sarebbe un’esclusione (o forse anche scortese) utilizzare la moneta di un Paese in un mondo digitale. Inoltre, la moneta digitale incentiverà le persone a trascorrere più tempo in questi mondi (dove possono guadagnare “soldi veri”) creando un ciclo virtuoso per le aziende che costruiscono questi mondi”.
Un precedente importante lo fornirebbe Second Life, celebre piattaforma di multi-user virtual environment, la cui economia interna è capace di muovere l’equivalente di circa 800 milioni di dollari ogni anno.
Forse il futuro del bitcoin non sono affatto ATM e dispositivi POS, ma visori e app VR.
Valute virtuali per mondi virtuali, quindi. A pensarci così non fa una piega.
A cura di Matteo Oddi
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