Proprio mentre la Gran Bretagna, che in queste settimane sta affrontando un nuovo aumento dei contagi dovuti alla diffusione della variante Delta, annuncia il via libera alla somministrazione della terza dose a partire da settembre, alcuni studi recenti hanno ipotizzato che il nostro organismo è in grado di sviluppare un’immunizzazione che dura nel tempo.
I risultati di questi studi sono dunque fondamentali per pianificare in maniera efficiente le future campagne vaccinali in tutto il mondo.
Immunità dei vaccini a mRNA
Come già dimostrato da diverso tempo, i vaccini approvati fino ad ora che sono basati sulla tecnologia a RNA messaggero (mRNA), ossia quelli prodotti da Moderna e Pfizer-BioNTech, presentano un’efficacia del 95% nel prevenire l’infezione da Covid-19.
Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature ha poi evidenziato che l’organismo di chi non ha mai sviluppato la malattia da Covid-19, ricevendo entrambe le dosi di questi vaccini è in grado di sviluppare un’immunizzazione a lungo termine. La scoperta sembra scontata ma in realtà non lo è affatto. Al momento dell’inizio della campagna vaccinale, infatti, le preoccupazioni erano molte poiché non era mai stato impiegato un vaccino a mRNA su così larga scala e quindi non se ne conoscevano gli effetti in termini di immunizzazione.
Alcuni ricercatori della Washington University hanno studiato dei campioni di sangue prelevati da 41 pazienti vaccinati e di linfonodi prelevati da 14 soggetti vaccinati, ed hanno scoperto che l’immunizzazione dura per almeno 4 mesi dalla vaccinazione. Ma questo non significa che, terminato questo lasso di tempo, l’immunità venga del tutto perduta.
Durante questo periodo, infatti, il nostro organismo induce la produzione di plasmacellule e linfociti B di memoria, ossia delle vere e proprie “centrali di produzione” di anticorpi specifici contro un dato virus. Una volta terminata la risposta immunitaria, infatti, è vero che queste cellule si “disattivano”, ma mantengono la capacità di produrre determinati anticorpi nel momento in cui l’organismo entra nuovamente in contatto con il virus. Si tratta quindi di un’immunizzazione “a vita lunga”.
Cosa succede nei soggetti guariti dal Covid?
Per quanto riguarda i pazienti che hanno già sviluppato la malattia e ne sono guariti, è stato confermato che è molto improbabile che vi sia una nuova manifestazione della malattia. Questo accade proprio perché, come specificato in un secondo documento pubblicato su Nature, l’infezione stimola il midollo osseo a produrre plasmacellule che presentano un’emivita abbastanza lunga.
I ricercatori hanno poi esaminato dei campioni di 77 individui che erano guariti dal Covid e 11 che invece non lo avevano mai contratto. Inizialmente osservarono che il numero degli anticorpi tendeva a diminuire rapidamente nei 4 mesi che seguivano l’infezione, facendo quindi destare dei dubbi sulla formazione delle plasmacellule e facendo credere che non fosse possibile ottenere un’immunità duratura.
Andando avanti con lo studio, però, è emerso che il numero di anticorpi tende a diminuire molto più lentamente nei 7 mesi successivi, rimanendo comunque in concentrazioni rintracciabili al microscopio per almeno (circa) un anno. Questo evento potrebbe essere dovuto proprio alla formazione delle plasmacellule, infatti nei campioni prelevati da soggetti guariti da Covid-19 sono state trovate in forma quiescente, assieme a linfociti B di memoria a riposo.
Effetti del vaccino sui guariti
E’ stato anche dimostrato che l’immunità sviluppata da soggetti guariti e poi immunizzati con vaccini a mRNA è molto più efficace di quella sviluppata invece da soggetti guariti che però non hanno ricevuto le dosi del vaccino. A confermarlo è un nuovo studio condotto da diversi ricercatori dei laboratori di medicina e biologia della Rockfeller University di New York.
Durante lo studio, gli esperti hanno preso in esame 63 pazienti guariti dal Covid-19, di cui 26 avevano poi in seguito ricevuto almeno una dose di vaccino a mRNA. In questi ultimi soggetti è stato osservato che non solo la quantità di anticorpi specializzati è rimasta stabile per circa 12 mesi, ma si è rivelata anche essere 50 volte più elevata di quella sviluppata dai pazienti guariti.
Secondo gli esperti si tratta di un dato molto importante, perché sottolinea l’importanza della vaccinazione anche nel caso in cui ci si è già lasciata la malattia alle spalle. Per quanto riguarda il mix di vaccini, invece, sono stati pubblicati diversi studi sulla rivista scientifica The Lancet. I ricercatori delle universitàdi Oxford, Rotterdam e Barcellona hanno infatti osservato una forte e promettente risposta immunitaria in oltre 670 adulti a cui è stata somministrata una prima dose AstraZeneca e poi Pfizer-BioNTech per il richiamo.
La possibilità di poter utilizzare vaccini differenti per un unico ciclo vaccinale è molto importante e potrebbe stravolgere l’attuale campagna vaccinale, rendendo molto più flessibile la catena di produzione, il rifornimento e la somministrazione dei vari vaccini in tutto il mondo.
Studi riguardanti le numerose varianti in circolazione
Nonostante tutto ciò, la variante Delta continua comunque a destare molta preoccupazione per via della sua elevata contagiosità. Dati anche i risultati sull’efficacia dei vaccini, bisognerà ad ogni modo risultare pronti per l’eventuale arrivo di nuove varianti. Per questa ragione, dunque, la terza dose non può essere del tutto esclusa.
La fondazione inglese dell’University Hospital Southampton, infatti, ha da poco avviato COV-Boost, ossia uno studio che prevede una sperimentazione basata sull’utilizzo di sette vaccini differenti, nell’eventualità in cui bisognerà ricorrere a una terza dose.
Per il momento lo studio ha già coinvolto circa 3mila pazienti, diversi per età, categoria di rischio e sesso. Lo scopo ultimo dell’indagine è dunque quello di stabilire quali siano i vaccini e le combinazioni vaccinali eterologhe che risultano più duraturi e al tempo stesso più resistenti alle varianti che potrebbero continuare a svilupparsi negli anni.
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