Le industrie europee della chimica, del cemento e dell’acciaio dovranno finalmente pagare un prezzo per le loro eccessive emissioni di CO2 nell’atmosfera, ma con molta probabilità questo avverrà fra circa un decennio.

Il prossimo 14 luglio la Commissione europea presenterà il pacchetto sul clima che punta al raggiungimento degli obiettivi concordati da Consiglio e Parlamento in nome del Green Deal, i quali prevedono una riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e la neutralità climatica entro il 2050. Per poter raggiungere questi obiettivi, però, è necessario che oltre al settore dell’energia collabori anche quello della manifattura, che oggi, al contrario, riceve gratuitamente tutte le quote di emissioni di cui ha bisogno.

Le lobby dei produttori, però, a partire dalla stessa Eurofer che rappresenta la siderurgia, si sono già messe al lavoro per rimandare il più possibile l’addio alla deroga. Inoltre sembra che sia in arrivo una tassa sulle importazioni da Paesi esterni all’Unione, in modo da azzerare lo svantaggio competitivo del produrre in Europa e per deincentivare la delocalizzazione. Le prime bozze e alcune indiscrezioni che arrivano da Bruxelles, però, non fanno ben sperare gli ambientalisti, che temono di vedere un’altra occasione sprecata.

Le proposte dell’esecutivo sono molto attese perché dimostreranno l’impegno che i 27 Stati membri decidono di prendere per cercare di rendere l’Europa il primo continente a emissioni zero. E’ stato proprio questo, infatti, l’obiettivo che si è posto lo scorso anno Valdis Dombrovskis, vice della presidente Ursula von der Leyen, che ha annunciato il proprio intento di riformare il sistema Ets (Emissions Trading System), che già dal 2005 fissa un tetto massimo alla CO2 che può essere emessa e impone a chi lo fa di acquistare tante quote quante sono le tonnellate di gas emesse nell’atmosfera.

Ad oggi, per un valore di circa 14 miliardi solo nel 2019, a pagare sono quasi esclusivamente gli impianti a produzione energetica. Dombrovskis ha quindi affermato di puntare alla progressiva eliminazione di tutte le quote gratuite concesse fino ad ora, assieme all’introduzione di una tassa sui beni importati da Paesi esteri con standard ambientali più permissivi.

Se Bruxelles imporrà ai produttori turchi e cinesi che vendono i loro prodotti in Europa di comprare le quote corrispondenti alle emissioni con cui viene prodotto il loro acciaio o i loro fertilizzanti, il costo di quei prodotti salirà di conseguenza. Così facendo, le aziende europee potranno competere in maniera eguale, poiché non subirebbero la concorrenza sleale di chi vende i propri prodotti senza però invstire nella riduzione delle emissioni.

Di conseguenza, le aziende non dovrebbero nemmeno ricevere in maniera gratuita le quote d’emissione. Inoltre, a impedirlo ci sono le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio, che vietano la “doppia protezione“. Queste iniziative, però, hanno provocato fin da subito la reazione delle lobby di alluminio, acciaio, cemento e prodotti chimici, e anche quella dei partner commerciali dell’Ue, le cui esportazioni d’ora in poi saranno soggette alla nuova tassa.

Il prezzo delle quote, a cui si aggiunge poi la “carbon tax alla frontiera”, ha raggiunto prezzi decisamente elevati, avvicinandosi ai 52 euro a tonnellata, mentre solo lo scorso anno il prezzo si aggirava attorno ai 20 euro. Sudafrica, Cina, India e Brasile durante un vertice sul cambiamento climatico tenutosi ad aprile, hanno firmato una dichiarazione congiunta dove sostenevano “grave preoccupazione” nei confronti della proposta di “barriere commerciali come una tassa sul carbonio alla frontiera, che sono discriminatorie e contrarie ai principi di equità“.

Nel frattempo l’Eurofer (European Steel Association) ha chiesto alla Commissione europea che le quote gratuite non vengano eliminate troppo in fretta dopo l’introduzione della nuova tassa. “Questo esporrebbe i produttori e i settori a valle al pieno costo del carbonio, minando la capacità di investire in tecnologie a basse emissioni”, afferma l’Eurofer nella lettera inviata alla Commissione e riportata dal Financial Times.

In realtà questa richiesta era già stata accolta da parte del Parlamento europeo, che ad aprile, con una maggioranza guidata da Ppe, Conservatori e riformisti e sovranisti di Identità e democrazia, ha espresso un voto contrario alla “rapida e definitiva” eliminazione delle quote gratuite in parallelo con l’introduzione della carbon tax.

Già pochi giorni dopo, a Bruxelles sono iniziate a circolare le bozze sul “Carbon border adjustment machanism” che l’esecutivo dovrà poi presentare a luglio. Dando una rapida occhiata al documento, si nota subito che sebbene il nuovo dazio ambientale su acciaio, alluminio, cemento, energia e fertilizzanti si presenti come un’alternativa alle quote gratis, non si legge da nessuna parte quando esattamente i produttori dovranno iniziare a pagarlo.

L’articolo 37, anzi, specifica che il costo per i prodotti importati potrà essere ridotto “per tener conto della misura in cui le quote Ets sono distribuite gratis”. Lo stop alla deroga per i grandi inquinatori, però, potrebbe essere più dettagliato nel provvedimento specifico sul sistema Eu Ets, il quale dovrebbe includere anche obblighi per il settore marittimo e per le compagnie aeree.

Secondo il Financial times, però, la Commissione europea sembra non volersi affrettare, infatti l’eliminazione definitiva è prevista per il 2030, secondo le norme attuali, o per il 2035, a seconda di quando verrà introdotta la tassa alla frontiera. Ci sono anche altri punti da chiarire. Tra il calcolo delle emissioni “incorporate” in un dato prodotto ed eventuali compensazioni da parte dei produttori stranieri che hanno già pagato un “balzello sul carbonio” nel paese di origine, il sistema è così complicato da risultare quasi impossibile da applicare.

Per questo motivo Matteo Leonardi, esperto di politiche e mercati energetici e fondatore del think tank sul cambiamento climatico Ecco, invita a una maggiore prudenza: “continuare a dare quote gratuite mentre si impongono dazi ai partner commerciali è senza dubbio improponibile, ma bisogna vedere se a questa tassa alla frontiera ci arriveremo davvero. Il meccanismo è molto complesso e di difficile applicazione: un importatore dovrà pagare solo perché produce in un Paese extra Ue o si terrà conto delle caratteristiche del suo stabilimento?”

“Le regole del Wto richiedono di valutare caso per caso, ma chi farà queste valutazioni? E davvero potremo pretendere che i Paesi in via di sviluppo paghino per importare? La mia impressione è che sia più che altro un modo per mettere in agenda il problema multilaterale delle politiche del clima. Da lì in poi partiranno dei negoziati ed è possibile che alla fine si opti per mecanismi diversi”.

La proposta europea, quindi, potrebbe semplicemente essere una banale minaccia da agitare per poi lasciare la questione alla sola diplomazia, che potrebbe individuare una strada alternativa, come ad esempio “un intervento sulla fiscalità, cioè una tassa sulla CO2 intrinseca nei prodotti da applicare sia ai produttori europei, sia a quelli extra Ue”.

Leonardi ha poi affermato che per tenere sotto controllo le emissioni del settore dei trasporti e dell’edilizia residenziale non è detto che bisogna includerli nell’Ets: “dal mio punto di vista è più opportuno intervenire con un sostegno pubblico sotto forma di incentivi e sussidi, mentre si eliminano quelli al fossile. Al contrario di un’impresa, un individuo difficilmente può sostenere un sistema di mercato della CO2″.

Prospettive di questo tipo hanno impensierito anche Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione responsabile del Green Deal, che teme si possa avere una ricaduta in termini di rialzo del prezzo dei carburanti. Per questo motivo propone anche di creare in parallelo un Climate action social found, ossia un fondo che permetta di compensare i cittadini più vulnerabili.

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