Il CDC (Center for Disease Control and Prevention) americano sta esaminando diversi rapporti secondo i quali un numero abbastanza ridotto di adolescenti e giovani adulti, aventi da poco ricevuto il vaccino contro il Covid-19, potrebbe aver avuto problemi cardiaci.
Secondo il report pubblicato dal CDC, fino ad ora vi sono state poche segnalazioni di miocardite e questi casi sembrano verificarsi maggiormente tra gli adolescenti e nei giovani adulti, con un’incidenza maggiore nei maschi piuttosto che nelle femmine, e con frequenza maggiore dopo aver ricevuto la seconda dose piuttosto che la prima, e tipicamente entro 4 giorni dalla vaccinazione.
Il New York Times ha pubblicato una ricostruzione degli eventi e secondo la nota rilasciata, nella popolazione generale, ogni anno circa 10-20 persone ogni 100mila sviluppano miocardite, manifestando vari sintomi, tra cui affaticamento, aritmie, dolore toracico e arresto cardiaco. Inoltre, secondo i ricercatori molti altri cittadini manifestano sintomi di entità minore e questi non vengono mai diagnosticati.
Per il momento, secondo il CDC il numero di casi di miocardite registrati dopo la somministrazione delle dosi non è di molto maggiore rispetto a quanto si registra normalmente tra i giovani, ma i membri del gruppo per la sicurezza dei vaccini dell’agenzia “hanno ritenuto che le informazioni dulle segnalazioni di miocardite dovrebbero essere comunicati”.
L’agenzia, però, non ha indicato con esatteza quale fosse l’età dei pazienti coinvolti. Il vaccino prodotto da Pfizer, in collaborazione con BioNTech, è già stato autorizzato dai 16 anni in su dallo scorso dicembre. Poi, all’inizio di questo mese, la FDA (Food and Drugs Administration) ha esteso l’autorizzazione anche per la somministrazione a bambini di età compresa tra i 12 e i 15 anni. Il 14 maggio il CDC ha avvertito i medici che vi potrebbe essere una certa correlazione tra i casi di miocardite registrati e i vaccini somministrati.
Per comprendere meglio i dati forniti in questo report, ilfatto.it ha intervistato Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, il quale ha affermato: “i ragazzi hanno una risposta immune più vivace a molti stimoli e alle infezioni, ma riguardo alla miocardite i numeri a cui si riferisce il CDC sono piccoli. Si tratta di adolescenti e giovani adulti, forse è una coincidenza o forse no. Aspettiamo di avere più dati“.
Il direttore scientifico ha poi sottolineato come i bambini non corrano praticamente quasi alcun rischio contraendo il Covid, poiché “i bambini si infettano, ma di solito non si ammalano, quindi rischiano davvero poco con Covid-19″.
Per quanto riguarda i possibili rischi se non si dovessero vaccinare i bambini, il direttore ha comunque ribadito che per il momento la priorità assoluta è quella di portare a termine la vaccinazione di cinquantenni e sessantenni, per poi proseguire con i quarantenni. “Per arrivare a vaccinare tutti fino ai 18 anni, ammesso di riuscire a mantenere il ritmo attuale, ci vorranno quattro mesi, quindi c’è tempo per pensare ai bambini. Fra l’altro sulla fascia 6 mesi – 11 anni non ci sono studi, né autorizzazioni da parte della FDA”.
Un altro punto abbastanza delicato riguarda la probabilità che determinati eventi avversi si manifestino nei bambini che riceveranno il vaccino. Per questo motivo è lecito domandarsi se anche nelle fasce più giovani, come è accaduto per i soggetti adulti, c’è la possibilità che determinati eventi avversi si verifichino in caso di vaccinazione su larga scala (come i rari casi di trombocitopenia trombotica indotta da vaccino, VITT).
Remuzzi ha risposto: “per accorgersi di effetti rari o rarissimi bisogna aver trattato centinaia di migliaia o anche milioni di pazienti, per questo gli studi di fase 3 non bastano. Serve seguire i pazienti dopo che il farmaco è in commercio, ed è quello che si sta facendo con i vaccini”.
Per quanto riguarda “quello che ormai tutti chiamano il Long Covid, le conseguenze a distanza del Covid-19, non colpisce i bambini quasi mai e quando succede – come emerge da uno studio inglese in bambini e ragazzi dai 5 ai 17 anni – si risolve tutto in 4-8 settimane senza lasciare strascichi rilevanti. Lo studio che ha preso in esame 300mila ragazzi seguiti nel corso di un anno, non è ancora stato pubblicato ma è disponibile, in forma di pre-print“, ossia in forma di bozza non ancora revisionata e valutata da parte di una rivista accademica”.
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