Nel Regno Unito è stata avviata, a inizio febbraio, una nuova analisi per valutare l’utilizzo di due vaccini differenti contro il Covid-19 tra prima e seconda dose, così da poter in qualche modo compensare la scarsità di dosi nelle fasi iniziali della campagna vaccinale. Attualmente i ricercatori sono impegnati a studiare la sinergia tra due differenti vaccini somministrati a uno stesso individuo, così da poter stabilire se questa tecnica è in grado di fornire una maggiore protezione dal virus.

I principali vaccini approvati fino ad ora prevedono una doppia somministrazione a diverse settimane di distanza l’una dall’altra, a seconda delle caratteristiche del siero stesso. La prima dose ad essere inoculata serve per indurre una risposta immunitaria nel paziente che la riceve, mentre la seconda serve per mantenerla attiva e rafforzarla. Proprio per questo motivo è assolutamente necessario che ogni individuo riceva entrambe le dosi ed è anche con questo che si spiega la loro scarsa disponibilità nonostante l’elevata domanda.

Alcuni ricercatori britannici, così come altri in giro per il mondo che hanno avviato ricerche simili, si sono chiesti se fosse possibile “mischiare le carte in tavola“, utilizzando cioè per la seconda dose un vaccino differente rispetto a quello utilizzato per la prima. Così facendo la somministrazione delle dosi sarebbe molto più flessibile e non si rischierebbe di rallentare l’intera campagna vaccinale qualora un produttore dovesse avere difficoltà con le consegne.

La sperimentazione avviata nel Regno Unito è mirata ad esaminare l’impiego combinato dei vaccini prodotti da Oxford-AstraZeneca e Pfizer-BioNTech ed è stata organizzata e portata avanti dall’Università di Oxford stessa. E’ ormai noto che questi sieri sono basati su meccanismi differenti, infatti quello prodotto da Pfizer-BioNTech utilizza l’mRNA (RNA messaggero), mentre quello prodotto da Oxford-AstraZeneca utilizza un vettore virale, ossia un virus innocuo al cui interno è presente la sola sequenza genica che consente di riprodurre la proteina Spike di ancoraggio. In questo modo il sistema dell’ospite riconosce la minaccia prontamente in caso di infezione.

Il test clinico coinvolgerà 820 persone, sulle quali saranno verificati anche gli effetti di somministrazioni più o meno distanziate nel tempo. Per questo i partecipanti verranno suddivisi in due gruppi, uno dei quali riceverà la seconda dose 4 settimane dopo la prima, mentre il secondo gruppo riceverà la seconda dose dopo 2 settimane. I volontari saranno sottoposti periodicamente a un esame del sangue al fine di monitorare i livelli di anticorpi e cellule immunitarie (linfociti T), che vengono prodotti appunto in seguito alla vaccinazione.

Alcuni test hanno già fornito dei risultati promettenti, sebbene siano ancora da verificare. Da una ricerca preliminare, infatti, è emerso che utilizzando per la prima dose un vaccino a mRNA su dei topi e poi quello di AstraZeneca per la seconda, vengono prodotti in grandi quantità dei linfociti T specializzati nell’identificazione e nella distruzione delle cellule infettate dal Sars-CoV-2.

Un’altra ricerca sta invece esaminando la risposta in seguito all’utilizzo di una dose del vaccino russo Sputnik V e una di Oxford-AstraZeneca. In questo caso, però, i vaccini utilizzati sono basati sulla stessa tecnologia, infatti utilizzano degli adenovirus, ossia tipi di virus innocui che vengono utilizzati solo per trasferire una certa informazione, e quindi per “istruire“, il nostro sistema immunitario. Anche se la tecnologia di base è simile, il vaccino russo utilizza due adenovirus differenti per la prima e la seconda dose (rispettivamente Ad26 e Ad5), mentre quello utilizzato da AstraZeneca è sempre lo stesso (ChAd).

Alcuni ricercatori ritengono che il vaccino prodotto da Oxford-AstraZeneca sia in un certo senso penalizzato dall’utilizzo dello stesso adenovirus per entrambe le dosi, perché nel momento in cui si riceve la seconda dose l’organismo ha più strumenti per contrastare l’adenovirus stesso, e questo si potrebbe tradurre in una diminuzione dell’efficacia. Per questo motivo molti ricercatori ipotizzano che si potrebbe ovviare a questo problema utilizzando una dose del vaccino russo per una delle due somministrazioni.

L’istituto di ricerca russo Gamaleya che ha sviluppato il vaccino Sputnik V potrebbe trarre dei benefici da questa soluzione mista con AstraZeneca, perché ultimamente si è trovato in difficoltà nel produrre il siero basato su Ad5. Questo adenovirus, inoltre, non gode di un’ottima reputazione perché inizialmente venne utilizzato in fase sperimentale per combattere l’HIV, ma successivamente venne scartato perché poco efficace e inoltre si sospettava che potesse addirittura auentare le probabilità di contrarre la malattia. Sostituire Ad5 con ChAd potrebbe evitare imprevisti e giovare a entrambi i produttori.

Il fatto di combinare vaccini diversi non è del tutto nuovo ma non sempre porta ai risultati sperati. Da decenni infatti, i ricercatori di tutto il mondo stanno provando a combinare diversi vaccini contro l’HIV nel tentativo di indurre una risposta immunitaria adeguata, ma fino ad ora non si è ancora giunti al risultato sperato. In altri casi, invece, gli esiti sono positivi, come nel caso dell’Ebola, contro cui viene utilizzata una soluzione mista di due vaccini, oppure come nel caso dello pneumococco e della poliomielite.

Facendo delle stime ottimistiche, i ricercatori britannici sperano di ottenere dei risultati concreti entro il prossimo giugno, in tempo quindi per l’estensione della campagna vaccinale al resto della popolazione, dopo aver coperto le fasce considerate più a rischio. Inoltre verranno avviati molti altri studi simili in altri istituti di ricerca nel mondo e così si potranno avere maggiori dati anche sulla combinazione di vaccini diversi.

L’utilizzo di vaccini diversi per ogni individuo dovrà comunque essere approvato dalle autorità di controllo, basandosi sulle ricerche svolte e sui dati raccolti, i quali dovrebbero appunto essere pronti già nei prossimi mesi. Fino a quel momento la pratica di combinare vaccini diversi verrà utilizzata solo in casi di emergenza e, nella maggior parte dei casi, solo per condurre le ricerche del caso.

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