Oramai le mascherine sono diventate il simbolo della pandemia, in quanto accessorio obbligatorio per poter uscire di casa. Anche se inizialmente erano introvabili, ora ne vengono prodotte a milioni e di diverse tipologie. Il principale problema legato all’utilizzo di mascherine riguarda l’inquinamento che queste causano, principalmente degli oceani, poiché vi restano a lungo.
E’ stato stimato infatti che ogni mascherina impiega circa 450 anni a degradarsi. Questo perché sono composte prevalentemente da materiali plastici, non biodegradabili, e sono anche oggetti ad alto rischio infezione, quindi sono particolarmente difficili da smaltire.
I dati preoccupano
Secondo un rapporto stilato da OceansAsia, si stima che circa 1,56 miliardi di mascherine monouso sono finite negli oceani di tutto il mondo nello scorso anno. Ciò corrisponde allo 3% della produzione totale, che per giunta nel solo 2020 ha raggiunto i 52 miliardi di unità per poter fronteggiare l’emergenza Covid-19.
Se poi si considera il fatto che ogni mascherina pesa in media 3-4 grammi, è facile intuire che più di 6.000 tonnellate di plastica si sono aggiunte agli 8-12 milioni di tonnellate che ogni anno finiscono nelle acque di tutto il mondo.
A peggiorare questa già drammatica situazione poi si aggiungono anche guanti e bottigliette di gel disinfettante, che rappresentano il 75% dei rifiuti plastici prodotti dalla pandemia e che stanno avendo un fortissimo impatto sugli ecosistemi.
Inoltre a cause delle restrizioni e dei vari lockdown indetti in tutto il mondo, è cresciuta notevolmente la domanda di cibo d’asporto, provocando così anche un aumento della domanda di confezioni monouso. Basta pensare che la sola Hong Kong nel mese di aprile ha registrato un consumo settimanale di 101 milioni di confezioni usa e getta rispetto ai 46 milioni del 2019.
Mascherine: minaccia per gli ecosistemi marini
E’ ormai noto il devastante effetto della plastica sull’ambiente, e proprio per questo motivo da diversi anni ormai si lotta per cercare di ridurne l’utilizzo al minimo indispensabile. In questo senso però la pandemia non ha contribuito in senso positivo, anzi. Basta infatti osservare i dati della produzione di materiale plastico dell’ultimo anno per vedere come questa sia sensibilmente aumentata.
Il problema principale legato alla presenza di rifiuti plastici nei mari riguarda il loro processo di decomposizione, perché questi si trasformano in microplastiche che poi vengono facilmente ingerite dagli animali. Ciò comporta anche un rischio per l’uomo, perché in questo modo la plastica si trasferisce lungo tutta la catena alimentare.
Un altro pericolo per la fauna acquatica (e non solo) da non sottovalutare è dato dai cappi delle stesse mascherine monouso. Questi infatti sono causa di soffocamento per diversi pesci e uccelli. La superficie plastica poi si presta particolarmente alla crescita di alghe, per questo molti animali confondono il rifiuto per del cibo, soprattutto le tartarughe, e lo ingeriscono.
Possibili soluzioni?
Esistono delle soluzioni per arginare il problema? Innanzitutto bisogna dire che già un buon senso civico alla base ridurrebbe di molto il problema. Ci sono però delle accortezze suggerite per limitare i danni provocati da questa situazione.
Dato che ormai le mascherine sono obbligatorie in molti Paesi, almeno dove e quando possibile si potrebbero sostituire quelle monouso con quelle lavabili. In altre parole, se da un lato gli operatori sanitari, per ovvie ragioni, sono costretti ad indossare delle mascherine monouso, dall’altro i cittadini potrebbero invece utilizzare delle mascherine in tessuto, e quindi lavabili.
Così facendo si trarrebbe un doppio beneficio. Innanzitutto si contribuirebbe a limitare lo spreco (si provi ad immaginare il beneficio che si trarrebbe se queste misure venissero adottate su larga scala), e inoltre si alleggerirebbe la domanda sul mercato, favorendo così anche la disponibilità di dispositivi monouso per le strutture sanitarie.
Come ha affermato lo stesso direttore della ricerca di OceansAsia, infatti, “tutti abbiamo un ruolo da svolgere e le opzioni sostenibili non mancano, ma ci vuole impegno e responsabilità“.
Qual è il ruolo dei governi?
Ogni Paese dovrebbe implementare delle politiche a favore del riciclo, della riduzione degli sprechi e dello sviluppo di materiali sostenibili. Proprio a tal proposito ci sono diversi strumenti efficaci, volti ad incentivare la popolazione all’adozione di comportamenti più responsabili ed ecologici.
Ad esempio, un primo e semplice (ma importante) passo da fare sarebbe quello di informare i cittadini della situazione attuale e dei rischi cui si va incontro, per poi proseguire con una semplificazione dei processi di smaltimento di tutti i prodotti sanitari.
Laddove invece si dovesse osservare una perseveranza nell’adozione di comportamenti scorretti, bisognerebbe stabilire punizioni molto severe, in modo da incentivare azioni di questo tipo. Attualmente, nonostante l’incremento di tecnologie sostenibili, solo il 9% della plastica viene riciclata, e ciò evidenzia una mancanza di attenzione verso il problema.
Proprio per questo motivo l’introduzione di tasse ambientali speciali potrebbe portare i produttori ad adottare delle politiche più sostenibili, contribuendo così a una riduzione del problema.
Alcuni esempi virtuosi
A causa dell’aumento della domanda durante la pandemia da Covid-19, molti Paesi che in precedenza li avevano adottati, hanno deciso di interrompere i propri programmi che disincentivavano l’utilizzo della plastica monouso.
Altri Paesi, invece, nonostante l’emergenza hanno continuato a fare pressioni per limitarne il consumo. Il Canada, ad esempio, proprio durante il 2020 ha annunciato che entro il 2021 verrà eliminata del tutto la plastica monouso, imponendone il divieto di utilizzo. Il Paese sembra puntare ad un obiettivo decisamente ambizioso, che è quello di raggiungere i zero rifiuti plastici entro il 2030.
Molto più drastiche sono state invece le intenzioni delle Mauritius, che entro il 15 gennaio vogliono vietare l’utilizzo di tutti i prodotti usa e getta.
Isole di plastica
Calcolare in maniera precisa la quantità di rifiuti plastici presenti negli oceani di tutto il mondo è impossibile per diversi motivi, ma si può avere una stima approssimativa fornita dagli esperti che però già fornisce un quadro allarmante e questa non deve assolutamente essere sottovalutata.
Inoltre la plastica rilasciata egli oceani tende ad accumularsi formando delle vere e proprie isole di rifiuti galleggianti. La più famosa è la Great Pacific Garbage Patch, situata tra il Giappone e le Hawaii, che contiene più di 80.000 tonnellate di plastica (il cui 80% è rappresentato da microplastiche).
Si pensa che l’accumulo di rifiuti, favorito anche dalle correnti oceaniche, sia cominciato negli anni Cinquanta e che sia continuato ininterrottamente fino ad oggi. La plastica dell’ “isola”, infatti, si trova intrappolata in un vortice a spirale, che crea una grande area centrale stabile da dove i rifiuti non riescono più ad uscire.
Abbiamo eluso le nostre responsabilità
Molte delle restrizioni imposte per cercare di arginare il Coronavirus hanno in realtà avuto degli effetti positivi sull’ambiente. Basta infatti pensare alla drastica riduzione delle emissioni nei primi mesi dell’anno, e a come in poco tempo i fiumi siano tornati limpidi, o ancora a come la natura sia tornata a risplendere in luoghi i cui ormai non accadeva da anni.
Tutto ciò, però, ci ha portato a “dimenticarci” dei mari, della loro fauna. Impegnati a combattere una guerra contro il virus, abbiamo trascurato questo ecosistema, provocando danni ad oggi ben visibili. Infatti ora cominciano ad emergere gli effetti negativi di negligenze imperdonabili, che ora decorano tristemente le spiagge di tutto il mondo.
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