Nel 2019 sono stati prodotti globalmente più di 100 quad di energia, ossia quasi 30 mila miliardi di chilowattora. La produzione di energia mondiale è un continuo aumento ormai dal secondo Dopoguerra, e ancora proviene principalmente dall’utilizzo di fonti fossili, cioè carbone, gas naturale e petrolio.

Tuttavia nella prima metà del 2020 in Europa la produzione di energia ottenuta da fonti rinnovabili ha addirittura superato quella prodotta da fonti fossili.

Attraverso i dati del Monthly Energy Review raccolti nel mese di ottobre 2020 da U. S. Energy Information Administration, è stato possibile osservare l’andamento della produzione di energia per ogni fonte, ossia le principali fonti fossili, il nucleari e le principali fonti rinnovabili.

Dal grafico costruito attraverso questi dati è evidente come il maggior contributo alla produzione di energia sia ancora dato da fonti fossili, come gas, petrolio e carbone, ma nonostante ciò è possibile notare anche una lenta crescita delle energie rinnovabili.

Produzione di energia

Per poter produrre energia, in termini estremamente semplici, occorre far girare delle turbine e l’energia meccanica così prodotta viene poi convertita in energia elettrica ed distribuita in rete.

Ma cosa succede nel caso delle fonti fossili? Il processo si svolge all’interno di centrali termoelettriche dove un determinato combustibile viene bruciato in modo da produrre calore. Il calore poi, trasforma dell’acqua in vapore acqueo e sarà proprio questo ad azionare turbine per generare energia.

Queste tubine, però, possono anche essere semplicemente azionate da forze come quella del vento (centrali eoliche) o dell’acqua (centrali idroelettriche). Il problema principale è che bruciando fonti fossili si emettono grandi quantità di gas a effetto serra, come CO2 e gas metano, che è lo stesso che si usa come combustibile.

I gas serra, anch’essi in costante aumento dagli anni ’50, accumulandosi nell’atmosfera causano l’innalzamento della temperatura globale, innescando una serie di meccanismi a volte irreversibili (almeno nel breve e medio termine), come lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari.

L’obiettivo sancito dall’Accordo di Parigi e ribadito da tutti i maggiori organismi internazionali, è quello di azzerare le emissioni nette di gas serra entro il 2050, con un tasso di diminuzione annuo del 7,6%, per poter mantenere la temperatura globale media a 1,5°C.

Dato che la quantità maggiore di gas serra emessi proviene proprio dalla produzione di energia, questa transizione è essenziale e si ottiene tramite l’utilizzo di fonti rinnovabili, poiché non emettono gas serra durante la produzione di energia, e il progressivo abbandono delle fonti fossili.

Ora la questione principale resta una: può il gas naturale essere considerato una fonte di transizione? La questione nasce dalla volontà di Stati e banche di utilizzare il gas naturale come combustibile di transizione prima di approdare alle rinovabili.

Questa richiesta poggia su due convinzioni. La prima è che la combustione del gas naturale produce una quantità minore di gas serra rispetto a quella prodotta dalla combustione di carbone e petrolio. La seconda è che le rinnovabili non sono ancora tecnologicamente pronte. Ma quanto c’è di vero in queste due affermazioni?

Confronto sulla quantità di CO2 emessa

Innanzitutto occorre specificare che per poter fare un confonto sulla quantità di gas serra emessi bisogna considerare tutto il ciclo di una data fonte, dalla sua estrazione alla sua combustione.

Per questo motivo è impossibile parlare di “zero emissioni“, ma occorre specificare che si intende di zero emissioni nette (o “basse emissioni“).

Francesco Gracceva, curatore dell’analisi trimestrale dell’Enea (Azienda nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), ha affermato che nell’intero ciclo di vita “1 kWh da fotovoltaico implica emissioni pari a circa 50 g di CO2 equivalente (gCO2e), ma può anche arrivare a 100 gCO2e nel caso del fotovoltaico di grande scala, mentre sono leggermente inferiori le emissioni del solare a concentrazione. Decisamente inferiori sono le emissioni degli impianti eolici (circa 10 gCO2e per kWh), come anche del nucleare (valori simili all’eolico ma con valori massimi maggiori)”.

Occorre però fare altre due precisazioni a riguardo. La prima è che per fornire un’analisi più accurata bisognerebbe tener conto anche delle emissioni di inquinanti atmosferici, che confermerebbe ancora una volta il vantaggio delle rinnovabili.

La seconda riguarda invece il settore del nucleare. Perché se è vero che la fissione nucleare, durante il processo di conversioni di energia, non produce gas serra, è anche vero che dall’altro lato si genera un altro problema importante e da non sottovalutare, ossia quello delle scorie radioattive ottenute tramite il processo e molto difficili da smaltire.

Ma tornando alle fonti rinnovabili, possiamo quindi dire che è appurato che queste producano poche o trascurabili quantità di gas serra durante l’intero ciclo di vita. Ora quindi un’altra domanda interessante da porsi sarebbe: ma quanta CO2 equivalente producono invece complessivamente i combustibili fossili?

Gracceva ha spiegato che “1 kWh da gas richiede circa 500 gCO2e, quasi il 50% in meno rispetto al carbone (tra 800 e 900 gCO2e) e meno della metà rispetto alla lignite. Le emissioni degli impianti a biomassa sono superiori ai 200 gCO2e per ogni kWh, con un range di variailità che va da circa 100 gCO2e per ogni kWh a circa 400 gCO2e per ogni kWh”.

Vincenzo Balzani, chimico, Professore Emerito dell’Università di Bologna, Fondatore di Energia per l’Italia, ha presentato diversi dati riguardo il confronto tra emissioni e calore prodotti da un grammo di e metano e un grammo di carbone.

I dati mostrano che:

  • il carbone sviluppa una quantità di calore pari a 32,8 kJ e 3,66 g di CO2;
  • il metano sviluppa una quantità di calore pari a 55,6 kJ e 2,74 g di CO2.

Effettuando alcuni calcoli è quindi possibile affermare che il metano emette in media il 50% in meno di CO2 rispetto al carbone per unità di energia.

Si tratta di un’analisi confermata anche da IEA, l’Agenzia Internazionale dell’Energia: “il passaggio dal carbone al gas riduce le emissioni del 50% quando si produce elettricità e del 33% quando si fornisce calore“. In generale, scrive IEA, “la maggior parte del gas e del carbone prodotti oggi viene utilizzata per la produzione di energia elettrica e come fonte di calore per l’industria e gli edifici”.

Quindi, in poche parole, il gas naturale emette circa la metà dei gas serra emessi dal carbone, risultando in conclusione migliore. Ma ciò sarà sufficiente per raggiungere l’obiettivo sancito dall’Accordo di Parigi? In realtà no, perché purtroppo non abbiamo a disposizione il tempo materiale per permetterci di “ridurre di un po'” le emissioni, ma dobbiamo ridurle di parecchio e in maniera estremamtente rapida, con un tasso del 7,6% annuo.

Inoltre bisogna tener conto di un altro fattore legato all’utilizzo del gas naturale come fonte per la produzione di energia, e riguarda le emissioni fuggitive.

Gas naturale ed emissioni fuggitive

L’IEA è stata costretta a rivedere le sue stime sulle emissioni relative al gas naturale, e in particolare “il livello aggregato delle emissioni di metano derivanti dalla produzione e dal consumo di combustibili fossili negli ultimi anni è stato più vicino a 175 Mt (milioni di tonnellate) all’anno, piuttosto che a 120 Mt all’anno (come nelle precedenti stime IEA)”.

Quindi oltre che dagli allevamenti, su cui bisognerebbe aprire un capitolo a parte, le emissioni di metano provengono anche dalla stessa filiera dell’energia.

L’agenzia ha inoltre riportato che attualmente le emissioni indirette totali, dovute cioè a perdite durante l’estrazione e il trasporto, per le attività di petrolio e gas equivalgono a circa 5200 milioni di tonnellate di CO2e, e il metano “è il più grande singolo componente di queste emissioni indirette“.

Il problema principale legato all’emissione di gas naturale è che questo è circa 30 volte più “potente” cella CO2 a trattenere calore nell’atmosfera terrestre, anche se ha una vita media molto minore (resta nell’atmosfera per molto meno tempo).

l’IEA ha poi aggiunto: “Le emissioni indirette del petrolio sono tra il 10% e il 30% dell’intensità delle sue emissioni durante l’intero ciclo di vita, mentre per il gas naturale sono tra il 15 e il 40%“.

Balzani su questo si è espresso in maniera molto chiara, affermando che “per le compagnie petrolifere il metano viene considerato il combustibile fossile “ponte”, cioè di transizione verso le energie rinnovabili. In realtà è un ponte che porta non alle rinnovabili, già mature, ma al disastro ecologico“.

Secondo l’Energy Watch Group, una rete globale di scienziati e parlamentari senza scopo di lucro, il gas infatti non può essere considerato una fonte di transizione. Nel loro rapporto Natural Gas Makes no Contribution to Climate Protection del 2019 hanno affermato che “le emissioni aggiuntive di metano compensano qualsiasi risparmio di CO2“.

Anche Ugo Bardi, tra gli esperti dell’Energy Watch Group, sostiene che il gas naturale non può essere ritenuto un combustibile di transizione, cioè non può essere in alcun modo “preferito” ad altre fonti fossili in termini di minori emissioni.

Quello che si guadagna nel minor contenuto di carbonio per unità di energia prodotta lo si perde in termini di emissioni fuggitive ai pozzi, durante il trasporto e l’uso”. Inoltre l’esperto sostiene che il gas potrebbe essere inteso e utilizzato come fonte di transizione solo perché la sua disponibilità è maggiore rispetto a quella di carbone e petrolio”.

Gracceva ha poi ricordato che ad ogni modo il destino del gas dipenderà dall’area geografica, dal settore di uso finale dell’energia e dall’evoluzione di alcune tecnologie chiave.

E’ quindi necessario che i Paesi ricchi, come l’Europa (dove le emissioni sono calate del 22% dal 1990) e gli Stati Uniti, compensino le eventuali difficoltà incontrate dai Paesi poveri, sia tramite obiettivi di decarbonizzazione più ambiziosi, sia tramite un maggiore sostegno economico e il trasferimento tecnologico a questi Paesi.

Gracceva poi conclude affermando: “la sostituzione di altre fonti con il gas in alcune regioni e settori sarebbe dunque più che compensata dalla sostituzione del gas con rinnovabili nel settore elettrico, dall’elettrificazione del riscaldameno e dagli aumenti di efficienza negli usi finali”.

Le energie rinnovabili sono tecnologicamente pronte?

Come già sottolineato, nella prima metà del 2020 le energie rinnovabili hanno superato la produzione di energie fossili in tutta Europa. Quindi da questo fattore si potrebbe evincere che non vi siano problemi legati all’aspetto tecnologico.

Come sostenuto da Balzani, “il fotovoltaico converte la luce del sole in energia elettrica con un’efficienza di circa il 20%, circa cento volte maggiore dell’efficienza della fotosintesi clorofilliana. Fotovoltaico ed eolico sono oggi le due tecnologie che forniscono energia elettrica ai costi più bassi, anche se accoppiate a sistemi di accumulo”.

Anche Bardi sostiene la stessa tesi e afferma che esistono diversi studi secondo i quali sarebbe possibile fornire energia a basso costo e abbondante in tutta Europa attraverso le rinnovabili. Le risorse e i metodi per fare ciò esistono e sono già a nostra disposizione ma, come sottolinea Bardi, occorre accettare che non si può continuare a far crescere esponenzialmente i consumi per sempre.

Gracceva invece dichiara che solare ed eolico sono ormai due tecnologie competitive con le alternative fossili nelle aree con le più favorevoli condizioni di insolazione e ventosità. “Resta però la questione dell’aleatorietà, variabilità e non programmabilità della loro produzione”.

Un altro problema da affrontare riguarda l’estensione dell’utilizzo dell’elettricità a tutti i settori di uso finale, “in alcuni casi perché le relative tecnologie sono ancora allo stato di prototipi o di dimostrazione, in altri casi per i limiti intrinseci del vettore elettrico“, in particolare nel settore del trasporto pesante e aereo, e negli usi industriali ad elevate temperature.

Come sottolineato dallo stesso Gracceva, si stima che per riuscire a mantenere l’incremento della temperatura media al di sotto dei 2°C per fine secolo, come sancito dall’Accordo di Parigi, buona parte della riduzione delle emissioni avverrà proprio grazie a tecnologie che ora sono allo stato dimostrativo o di prototipo.

Tra queste sono incluse anche soluzioni come quella dell’idrogeno verde, oppure di cattura e fissaggio della CO2 o della combustione di biometano. Ma anche su queste bisogna effettuare un’attenta analisi per valutarne effetti benefici e possibili rischi.

Il greenwashing di Eni

Quindi, riassumendo, possiamo dire che:

  • il gas emette meno del carbone e del petrolio, ma produce emissioni fuggitive che possono arrivare anche a compensare il risparmio ottenuto;
  • fotovoltaico ed eolico sono già due tecnologie competitive;
  • non abbiamo il tempo materiale per ridurre a poco a poco le emissioni, ma occorre effetture una transizione ben strutturata che ci porti alle zero emissioni nette entro il 2050.

Dunque ci si aspetterebbe un impegno comune per effettuare al meglio questa transizione, attraverso una riduzione generaizzata del consumo energetico, un efficientamento della produzione energetica, una spinta sulle rinnovabili e degli ampi incentivi per ricerca e sviluppo.

Purtroppo però vi è un nemico invisibile, il greenwashing, ossia la pratica tramite la quale vengono considerate sostenibili anche azioni che in realtà non lo sono. Per fare un esempio che riguardi sia il gas naturale che il nostro Paese, possiamo prendere il caso di Eni.

Nel suo piano strategico di lungo termine al 2050, Eni ha affermato di voler raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica utilizzando un mix produttivo con una componente gas del 60% al 2030 e pari a ccirca l’85% al 2050, presentando come “green” un progetto che in realtà non lo è affatto.

Balzani infatti sottolinea che se si vuole raggiungere tale obiettivo bisogna azzerare totalmente il consumo di fonti fossili, metano incluso. “Quello che pensa di fare Eni (in accordo con altre compagnie petrolifere) in realtà è un’altra cosa. Secondo loro si può continuare ad usare i combustibili fossili, e in particolare il metano che è il “migliore” “.

Ma in che modo? Prelevando la CO2 già emessa e contenuta nell’atmosfera. Queste procedure, indicate con il termine di CCS, ossia Carbon Capture and Sequestration, implicano la cattura di CO2 emessa e il suo immagazzinamento in giacimenti ormai esauriti di idrocarburi.

“Questo processo, oltre ad essere poco logico, poiché si riversano nell’atmosfera quantità sempre maggiori di CO2 per poi ricatturarle e fissarle, è pericoloso dal punto di vista ambientale, molto costoso e richiede un forte sviluppo con molti interrogativi, perché è ancora a livello di ricerca”.

Per quanto riguarda gli investimenti, con il piano strategico al 2030, Eni metterà in campo ben 32 miliardi di euro, utilizzandone solo 2,6 nel settore delle rinnovabili e destinando tutto il resto al gas.

Eni ha poi aggiunto che, in linea con gli obiettivi di decarbonizzazione, l’azienda “pianifica investimenti in fonti rinnovabili, di efficienza energetica, economia circolare e abbattimento del flaring (la combustione del gas in eccesso) di 4 miliardi di euro“, precisando che si tratta di un incremento del 33% rispetto al piano precedente.

Tutti obiettivi, quelli di Eni, che si contrappongono alla storica decisione della Banca Europea per gli Investimenti che, a partire dal 2021, non finanzierà più progetti che includano combustibili fossili, gas compreso.

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