In questi giorni il numero di contagi da Covid sta continuando ad aumentare in tutta Italia. Mentre si attende l’arrivo dell’autorizzazione da parte dell’Agenzia italiana del farmaco per l’inizio degli studi clinici del raloxifene, che verrà utilizzato su pazienti affetti da Covid-19 ma con sintomatologia scarsa, si è scoperto che milioni di italiani potrebbero già essere entrati a contatto con il virus.
Anche se non è la prima volta che notizie simili saltano fuori, questa volta le conseguenze potrebbero essere davvero determinanti.
I dati di marzo e maggio
A maggio sono state condotte su territorio nazionale tre indagini Doxa, coordinate dall’Università Statale di Milano, sui sintomi correlati al Covid e queste hanno evidenziato che, tra il 7 marzo e il 4 maggio, il 25% della popolazione italiana, ossia circa 15 milioni di persona, aveva riportato sintomi riconducibili al coronavirus.
Di questi, circa 8 milioni potrebbero aver avuto la malattia, perché sintomi analoghi potrebbero comunque essere dovuti al altri virus influenzali.
Nel periodo precedente invece, a marzo, un’analisi condotta da un team dell’Imperial College di Londra guidato da Neil Ferguson e Samir Bhatt, e diffusa dall’Oms Collaborating Centre for Infectious Disease Modelling, aveva affermato che le persone che avevano già incontrato il virus dovevano già essere 6 milioni in tutto il mondo, e che si sarebbero potute evitare circa 120mila vittime in 11 Stati differenti, tra cui Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.
Quindi, la percentuale di soggetti infettati dal virus sarebbe stata compresa tra il 2 e il 12% della popolazione, con:
- 0,41% in Germania;
- 2,7% nel Regno Unito;
- 3% in Francia;
- 9,8% in Italia, primo Paese ad essere colpito così duramente in Europa.
Nuovo studio dell’Università Cattolica di Roma
Un nuovo studio, svolto presso l’Università Cattolica di Roma, ha stimato che oltre 5 milioni di italiani, vale a dire il 10% della popolazione, sono entrati in contatto con il virus. Quindi sarebbero molti di più rispetto alle stime ufficiali riportate.
L’analisi, pubblicata sulla rivista Science of the Total Environment e condotto dal professor Giuseppe Arbia, docente di Statistica Economia alla facoltà di Enconomia dell’Ateneo, in collaborazione con la professoressa Francesca Bassi dell’Università di Padova e del dottor Piero Demetrio Falorsi dell’ISTAT, evidenzia anche il cambiamento dell’età mediana dei contagiati, che sale quindi a 46 anni, contro la stima di 41 anni che emerge dai dati del Ministero della Salute calcolati sulla base dei tamponi effettuati.
I problemi dei tamponi
Ad oggi, i tamponi vengono effettuati solo a persone sintomatiche o a chi è entrato in diretto contatto con una persona risultata positiva, quindi non vengono effettuati tamponi di screening sulla popolazione.
Per questo motivo, le persone infette e che presentano sintomi risultano “sovrarappresentate“, essendo i principali bersagli dei test, mentre gli asintomatici o i pauco-sintomatici, al contrario, sono sottorappresentati.
Proprio per questo motivo, ha spiegato il professor Arbia, fino ad oggi non era possibile avere una stima precisa del numero di persone entrate in contatto con il virus, e quindi avere una stima della letalità del Covid.
Differenza tra letalità e mortalità
Il tasso di letalità e quello di mortalità sono due dati importantissimi per valutare la pericolosità di un virus che però spesso vengono confusi.
Il tasso di letalità si ottiene dividendo il numero delle persone decedute a causa della malattia con il totale dei malati. Ovviamente questo dato può oscillare molto poiché si basa sul modo in cui si decide di rilevare quante persone sono malate. A causa delle scelte fatte dall’Italia, infatti, il nostro tasso di letalità è molto più alto di quello di altri con un elevato numero di contagi.
Il tasso di mortalità, invece, si ottiene dividendo il numero delle persone morte a causa della malattia con quello del totale degli esposti, quindi l’intera popolazione interessata.
Ne deriva, quindi, che il tasso di letalità rappresenta un dato più consistente rispetto a quello del tasso di mortalità, che però rappresenta un dato molto importante per stabilire la pericolosità di un’epidemia.
Nuovo modello statistico
Il team di Arbia ha cercato di rimediare a questa “distorsione” proponendo un nuovo modello statistico attraverso il quale i dati ufficiati vengono affiancati, e quindi “pesati“, sulla base della struttura per sesso ed età della popolazione italiana.
Un esempio, infatti, è dato dai più giovani che raramente rientrano nei dati ufficiali in quanto più spesso asintomatici. In questo modello, invece, essi vengono pesati maggiormente, come se ogni giovane positivo valesse più (ai fini della stima) di un individuo positivo di età maggiore.
Numero reale di contagiati e morti
L’esito è una stima delle persone entrate in contatto con il virus di molto superiore rispetto ai dati ufficiali e pari a 5.263.000, ovvero circa il 10% della popolazione italiana, contro una stima di 381.602 ricavata con i dati ufficiali della Protezione Civile, e contro la stima di 1.482.000 ottenuta tramite l’indagine sierologica condotta dall’ISTAT.
Arbia ha infatti sottolineato: “Il dato che emerge dalla nostra ricerca è peraltro in linea con le stime dell’Imperial College di Londra e con quelle diffuse da Mike Tyan dell’Organizzazione mondiale della sanità, che convergono nell’affermare che i contagiati sarebbero, appunto, il 10% circa della popolazione mondiale”.
Quali sono le conseguenze?
Secondo gli esperti, questi dati implicano due fattori, uno positivo e uno negativo. Quello cattivo è che, essendo il numero dei contagiati molto superiore a quello che pensiamo, maggiore è anche il rischio di una nuova rapida e incontrollata trasmissione del virus.
Quello positivo invece riguarda la letalità del virus, che potrebbe essere di molto inferiore rispetto a quanto stimato dai dati ufficiali.
Secondo i dati diffusi dalla Protezione Civile, infatti, la letalità sarebbe del 9,5%. Secondo l’indagine condotta dall’ISTAT, il valore scende a 2,4%, mentre secondo le stime dell’Università Cattolica, il valore si abbasserebbe addirittura allo 0,6%, vale a dire di 6 persone su 1.000.
La letalità della pendemia spagnola del 1918 fu del 4%, mentre se si considerano i dati dell’influenza stagionale la letalità si aggira attorno allo 0,1%. La letalità del Coronavirus, quindi, sarebbe di sei volte superiore a quella di una normale influenza stagionale.
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