Mentre il mondo si unisce nella ricerca di un vaccino contro il Covid-19, sembra procedere speditamente la sperimentazione del trattamento dei pazienti con plasma iperimmune nel nord Italia ma non solo.
Una strada che potrebbe portare ad una cura efficace per combattere il coronavirus, della quale ci hanno parlato il professor Giuseppe De Donno, primario del reparto di pneumologia all’ospedale Carlo Poma di Mantova, e la dottoressa Giustina De Silvestro, direttore dell’U.O. Immunotrasfusionale presso il Dipartimento di Medicina Trasfusionale dell’Azienda Ospedale Università di Padova.
La ricerca di una cura va avanti, e se da un lato ci si trova costretti a ricorrere a terapie a base di farmaci come antivirali, antinfiammatori e anticorpi monoclonali, dall’altra si porta avanti la sperimentazione di terapie alternative, auspicabilmente più efficaci e rigorosamente a basso rischio.
Si parla quindi della terapia che prevede l’utilizzo del plasma dei pazienti guariti, attraverso il quale i malati possono ricevere gli anticorpi necessari a contrastare l’infezione.
Tra i primi centri ad avviare questo percorso ci sono l’Azienda Socio-Sanitaria Territoriale di Mantova e il Policlinico San Matteo di Pavia, ed è proprio in quest’ultimo che è già partito uno studio clinico per valuare l’efficacia terapeutica delle trasfusioni di “plasma iperimmune” per i pazienti che si trovano ricoverati con gravi difficoltà respiratorie a causa del Covid-19.
Una terapia che non solo l’Italia sta sperimentando, ma anche gli USA e il Canada, ma non solo, si tratta di una strada già percorsa in passato, in caso di altre condizioni epidemiologiche come è la stessa dottoressa De Silvestro a sottolineare.
La terpaia con plasma non è una novità
“La sieroprofilassi tramite somministrazione del plasma dei guariti non è una proposta nuova” spega la dottoressa come riportato dal sito dell’OMAR (Osservatorio Malattie Rare) “infatti vi siamo ricorsi molto di recente per il trattamento di pazienti con infezione in corso da West-Nile virus e, negli anni scorsi, è stata utilizzata anche nel trattamento di casi di Ebola e di pazienti colpiti da insufficienza respiratoria legata all’infezione da Sars-CoV, comparso nel Sud-Est Asiatico, e da MERS-CoV, diffusasi dall’area Medio-Orientale”.
“Inoltre” spiega ancora la De Silvestro “grazie alla robusta esperienza del nostro ospedale nel settore dell’Onco-ematologia pediatrica, abbiamo potuto osservare che al termine di pesanti cicli di terapia, quando i piccoli pazienti affetti da patologie leucemiche o emato-oncologiche facevano ritorno in famiglia, il loro status di immunocompromessi li rendeva più esposti a patologie, come la varicella, che contraevano spesso da fratelli o sorelle, incorrendo così nello sviluppo di polmoniti interstiziali gravissime, per certi versi analoghe a quelle che osserviamo nei pazienti affetti da Covid-19”.
“Perciò in assenza di altre terapie, per trattarli ricorrevamo con buoni risultati al plasma raccolto da donatori che avessero contratto la varicella o una forma di herpes zoster”
Insomma non è certo una novità, quella di utilizzare il plasma dei pazienti guariti per combattere la malattia nei pazienti che non riescono a sconfiggerla. Una terapia collaudata dunque in più circostanze, e che ora alcuni medici stanno tentando anche per sconfiggere il nuovo coronavirus.
Ed è ancora la dottoressa De Silvestro a spiegare che “bisogna precisare che quella che si basa su plasma iperimmune è una terapia immunomodulante, profondamente diversa da un vaccino. Il vaccino determina una immunizzazione attiva, grazie alla quale stimola l’organismo che lo riceve a produrre anticorpi specifici contro una determinata malattia”.
“In questo caso invece gli anticorpi sono già stati prodotti da un altro individuo e possono essere trasfusi nel malato che non ne abbia in quantità sufficiente da superare in maniera rapida la malattia. Si parla dunque di una immunizzazione passiva”.
Nella stessa direzione è andata anche la Cina, e lo ha fatto in piena pandemia, solo che a un certo punto si sono “arenati” come spiega il dottor De Donno in una intervista concessa a Radio Radio. Ad ogni modo il principio è sempre lo stesso, e vale a dire che gli anticorpi contenuti nel plasma del soggetto guarito da Covid-19 siano in grado di proteggere l’organismo e di mantenere l’immunità.
Per avere la certezza che il metodo funzioni anche con il nuovo coronavirus bisogna però, come da prassi, ottenere determinati risultati in fase di sperimentazione attraverso gli studi clinici.
Come procede la sperimentazione della terapia con plasma iperimmune
La Sars-CoV-2 è una malattia nuova, come ormai abbiamo da tempo appreso, ed i ricercatori di Padova hanno costruito quindi un nuovo protocollo di studio clinico, che prevede di partire da un position paper che traccia le linee guida per la produzione di plasma imperimmune.
Dall’istituto padovano fanno sapere: “il Centro Nazionale Sangue ci ha dato l’autorizzazione a procedere a condizione che il plasma raccolto risponda a requisiti di assoluta sicurezza. Grazie alla collaborazione con il Servizio di Microbiologia sono state approntate nuove metodiche diagnostiche per la realizzazione di un’ampia gamma di test necessari a cercare gli anticorpi nel plasma degli ex pazienti e convalidare il prodotto prima che si trasfuso”.
In questa fase occorre necessariamente procedere con una serie di verifiche finalizzate a garantire il massimo livello di sicurezza della trasfusione. Il plasma dei donatori viene quindi sottoposto a screening per la ricerca di virus come quello dell’HIV, dell’epatite B e C, della sifilide e, in alcuni casi a seconda del periodo anche al test del West-Nile.
E i passaggi non finiscono qui. “Come ulteriore step di sicurezza, questo plasma viene sottoposto a un processo di inattivazione tramite aggiunta di un intercalante che si insinua tra le basi dell’RNA virale” spiega la dottoressa De Silvestri “successivamente, l’esposizione ai raggi ultravioletti attiva questa sostanza, bloccando la replicazione dei virus“.
“Con questi metodi abbiamo la garanzia di evitare la diffusione di eventuali altri organismi presenti nel plasma di cui non siamo a conoscenza. Infine, il metodo scelto per l’inattivazione blocca anche altri virus della famiglia Coronavirus, ed è perciò un’ulteriore garanzia di eliminazione di tutte le particelle virali”.
Padova ha un’obiettivo nel breve termine, ed è quello del trattamento di 50 pazienti con quadro clinico grave e segni di insufficienza respiratoria. La dottoressa De Silvestro a tal proposito spiega: “i candidati all’arruolamento sono individui affetti da Covid-19 che presentino un’insufficienza respiratoria severa o in rapida progressione”.
“Sono pazienti che non si trovano ancora in terapia intensiva ma che sono a rischio di peggioramento” precisa la dottoressa, e poi aggiunge: “secondo gli studi, questo è il momento più adeguato per la somministrazione, perché ci offre la possibilità di bloccare il peggioramento dei sintomi, impedendo così il ricovero in terapia intensiva e il ricorso alla ventilazione assistita”.
“Ciò non toglie che potrebbero essere inclusi anche pazienti appena entrati in terapia intensiva, quando si è appena sviluppata una grave insufficienza respiratoria. Tuttavia, l’esperienza dei colleghi cinesi, con cui ci siamo confrontati, ci insegna che se il paziente è ricoverato in terapia intensiva già da 8-10 giorni, questa terapia perde di efficacia“.
Come avviene esattamente la somministrazione? Sono previste infusioni da 200 e 600 ml di plasma iperimmune una volta al giorno per tre giorni consecutivi. All’occorrenza lo schema può anche essere ripetuto in quei casi in cui l’organismo offre una risposta più lenta. Sull’andamento della sperimentazione contineranno comunque ad arrivare altri dati per tutto il mese di maggio.
Non è stato solo il mondo universitario ad accogliere questo nuovo approccio, ma anche il mondo farmaceutico. Si è formata quindi una sorta di alleanza tra biotech come Biotest, Bio Products Laboratory (BPL) LFB e Octapharma con il binomio CSL Bhring e Takeda finalizzata allo sviluppo di una terapia di derivazione plasmatica per curare i pazienti di Covid-19.
La stessa Keldron Biopharma ha fornito ai centri trasfusionali di Mantova, Padova e Pisa i dispositivi per il trattamento del plasma proveniente dai pazienti guariti da Covid-19, utili a inattivarlo viralmente per permettere un trattamento in piena sicurezza dei pazienti ancora affetti da gravi insufficienze respiratorie.
Il professor De Donno: “abbiamo una banca del plasma”
Secondo il professor Giuseppe De Donno, primario del reparto di pneumologia all’ospedale Carlo Poma di Mantova, la terapia con il plasma iperimmune “può diventare un’arma utile, ma ovviamente si dovranno fare dei trial di ricerca di seconda fase”. “In questo momento nel mondo si è mossa molto la comunità scientifica rispetto ad altri enti e ad altre istituzioni, al momento sono aperti 50 progetti di sperimentazione sul plasma iperimmune” fa sapere De Donno intervistato da Radio Radio.
“Noi abbiamo veramente aperto una strada, ovviamente per la strada per primi l’avevano aperta i Cinesi, però si erano arenati dopo 10-12 casi. Noi abbiamo fatto un lavoro un po’ più articolato e questo è servito come base per avviare nuove sperimentazioni” spiega ancora De Donno.
Quanto alla ‘materia prima’ che deve necessariamente, almeno in queste fasi, arrivare dai donatori, il professore ha spiegato in che modo Mantova ha organizzato il meccanismo delle donazioni di plasma.
“A Mantova ogni giorno abbiamo 7-8 donatori, e abbiamo fatto una buona campagna sia mediatica sia attraverso Avis. Per quanto riguarda i donatori noi abbiamo una banca del plasma” spiega e aggiunge poi: “non abbiamo problemi di avere i donatori, anche perché Mantova essendo stata molto colpita ha una marea di guariti e di conseguenza volenterosi di donare il plasma”.
Di più, aggiunge il professor De Donno “stanno organizzando da molte città d’Italia dei pullman per venire a Mantova a donare il plasma. Io ricevo quotidianamente telefonate di persone che proprio vogliono venire a Mantova a donare il plasma, perché nelle loro città non c’è attivo un protocollo di ricerca“.
Inoltre, spiega sempre il professore “da Ischia, da Saint Moritz, da molte città ci telefonano tutti i giorni ormai, sembriamo un call center, per avere il plasma iperimmune, perché effettivamente in questa situazione tutte le armi che si hanno a disposizione bisogna giocarsele”.
“Non capisco come si possa usare il Tocilizumab dove non esiste ancora uno studio randomizzato controllato nei confronti di questa malattia, e si abbia paura ad usare qualcosa che invece è già stato utilizzato. Premetto che io uso anche il Tocilizumab, non è che non lo usi, però secondo me va usato il Tocilizumab, come va usato il Farizumab, come va usata l’eparina, come va usata l’idrossiclorochina e abbiamo un’arma in più che è l’unica arma che agisce direttamente contro il coronavirus, non vedo perché non si debba provare a usarla”.
Quali sono le obiezioni all’uso del plasma iperimmune? Il professore spiega che si tratta di critiche perlopiù relative al fatto che si tratta di una “sperimentazione a braccio singolo”, ma fa notare poi: “io voglio vedere dove sono i dati del Tocilizumab” che è stato usato continuativamente “al di fuori di qualsiasi protocollo” infatti si tratta di un farmaco contro l’artrite reumatoide che viene utilizzato per il trattamento dei pazienti con il Covid-19 “off label”.
Più che off label, sottolinea tra l’altro il professor De Donno, che sottolinea come ad esempio il Sarilumab venga proposto, in una sperimentazione che sta partendo, off label sia come posologia che come via di somministrazione.
Sottolinea poi che non ritiene sbagliato procedere in tal senso, ma che sia a maggior ragione valida la scelta di provare qualcosa, come la terapia con plasma iperimmune, “che è stato già provato e dove c’è letteratura, soprattutto quando i dati preliminari di uno studio dimostrano che questo può avere un’efficacia su una parte dei malati su cui l’abbiamo testato che è quella con insufficienza respiratoria”.
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