L’esplosione della pandemia di coronavirus ha portato molti Paesi a ricorrere a misure restrittive che limitano la produzione e gli spostamenti, facendo precipitare inevitabilmente la domanda di petrolio. Complice la guerra dei prezzi sempre più accanita l’industria dei combustibili fossili si trova adesso in ginocchio, e secondo gli analisti il settore sta affrontando la sfida più difficile in cento anni di storia.
Le conseguenze di questa crisi del petrolifero potrebbero essere durature, e molti arrivano a prospettare uno scenario “infernale” e in ogni caso “senza precedenti”. Ma quale potrebbe essere il futuro dell’industria petrolifera? Il fenomeno davanti al quale ci troviamo potrebbe alterare definitivamente il corso della crisi climatica, ma gli scenari ipotizzati sono due e in netta contrapposizione fra di essi.
Secondo molti esperti questa situazione porterà ad un momento nell’immediato futuro in cui si raggiungerà il picco della domanda, dopodiché il mercato itraprenderà un’irreversibile parabola discendente col risultato che il clima ne trarrà grande beneficio e gradualmente inizierà a “risanarsi”.
Alcuni sostengono anche che quel picco di domanda sia stato già raggiunto nel 2019 e che la parabola discendente sia stata già intrapresa. Il che significherebbe che l’anno che ci siamo lasciati alle spalle passerebbe alla storia come quello in cui si è raggiunto il massimo livello di emissioni di anidride carbonica.
Potrebbe però profilarsi anche un altro scenario, che vede un’industria dei combustibili fossili prossima alla ripresa, con il calo del prezzo del petrolio ad indurre un aumento della domanda, il che comporterebbe il rallentamento dell’indispensabile transizione verso le fonti rinnovabili.
Quale scenario si concretizzerà? Ecco i fattori da considerare
Bisogna prendere in considerazione una serie di elementi per analizzare in modo accurato la situazione in cui ci troviamo, e molti presentano delle incognite. L’andamento dell’industria dei combustibili fossili nei prossimi anni dipenderà da vari fattori geopolitici, dalle scelte degli investitori, da quelle operate dai Governi, ma anche dagli obiettivi ambientali, quindi dalle pressioni degli attivisti e dalle decisioni dei consumatori.
Partiamo dai dati certi, a cominciare dall’evidente calo del prezzo del petrolio, che tocca i minimi storici da almeno 20 anni, e questo significa che il valore delle azioni di alcune aziende petrolifere si è dimezzato, mandando in fumo almeno 130 miliardi di dollari, pari a un terzo circa degli investimenti attuali.
La situazione è così atipica che in alcuni mercati i prezzi sono addirittura scesi sotto lo zero, con strutture di stoccaggio piene in tutto il mondo e venditori che quindi pur di liberarsi del petrolio sono disposti a pagare.
Valentina Kretschemar, della società di analisi Wood Mackenzie ha commentato la situazione dicendo: “la guerra dei prezzi e il Covid-19 hanno gettato nel caos il settore del petrolio e del gas. Oggi ci sono aziende che lottano per la sopravvivenza”.
Numerosi pozzi di petrolio potrebbero aver già chiuso, secondo Goldman Sachs, che sottolinea come il prezzo del greggio sia calato al punto da essere inferiore ai costi di trasporto, motivo per cui la produzione complessiva si sarebbe ridotta di circa un milione di barili al giorno.
Jeffrey Currie, capo del settore delle materie prime di Goldman Sachs fa sapere che il numero dei pozzi chiusi sta crescendo “di ora in ora” e che ciò potrebbe “cambiare definitivamente l’industria dell’energia e la sua geopolitica, influenzando il dibattito sul cambiamento climatico”.
Kingsmill Bond, un analista di Carbon Tracker spiega che “il virus anticiperà il picco della domanda dei combustibili fossili”. L’andamento del settore era già segnato dall’impegno globale volto a ridurre le emissioni nette di gas serra, sottolinea Bond che spiega: “l’impatto del virus su questo fenomeno dipende dalla gravità dell’emergenza”.
Il picco però, almeno secondo Carbon Tracker, doveva essere nel 2023, e secondo Kingsmill Bond la pandemia e la conseguente crisi economica globale potrebbe averlo anticipato di tre anni. “Questo significa che quasi sicuramente il picco delle emissioni è stato raggiunto nel 2019, e forse anche quello dei combustibili fossili. È ancora possibile una nuova impennata nel 2022, ma sarà di breve durata e poi comincerà una discesa inarrestabile” ha spiegato Bond.
Le compagnie petrolifere sembrano non voler credere a questo scenario, e affermano in genere che il picco è lontano, gli esperti però lo collocavano da tempo in questo decennio. A ricordare che la crisi potrebbe anticipare il punto di non ritorno dell’industria dei combustibili fossili interviene anche Mark Lewis, del settore ricerca e investimento sul cambiamento climatico di Bnp Paribas.
“Quando la situazione si sarò normalizzata il dibattito sul picco della domanda sarà ancora molto attuale, più impellente che mai, soprattutto se il settore dell’aviazione commerciale a lungo raggio non riuscisse a riprendersi. Negli ultimi anni le compagnie aeree hanno avuto un forte impatto sulla crescita della domanda, ma oggi la gente resta a casa, lavorando da remoto e con le videoconferenze. Più questo periodo si allungherà e più persone si chiederanno: “abbiamo davvero bisogno di volare?”.
Crollano i tassi di rendimento per i progetti legati al petrolio
I guadagni legati ai progetti di esplorazione sono drasticamente calati con il crollo del prezzo del petrolio, e questo potrebbe determinare la fine di quella che Lewis definisce “l’epoca d’oro dei dividendi” degli ultimi vent’anni. Fino ad ora infatti le azioni petrolifere sono sempre state un punto fermo nei portafogli d’investimento.
La Wood Mackenzie ha quindi valutato le possibili conseguenze sui piani d’investimento delle aziende del settore, nell’ipotesi di un prezzo del petrolio a 35 dollari al barile. Kretschmar lo ha descritto come “uno scenario da incubo” e ha spiegato che “a quel prezzo nel 75 per cento dei progetti non si arriverebbe a coprire il costo del capitale investito”.
I rendimenti previsti per i progetti legati al petrolio e al gas sono infatti scesi dal 20 al 6 per cento finendo così “in linea con quelli del solare e dell’eolico”. “Già gas e petrolio sono poco amati dagli investitori. In un contesto come quello attuale, con prezzi così bassi, stanno diventando investimenti con rendimenti ridotti, grandi rischi e molte emissioni” spiega ancora Kretschmar.
“Non è un pacchetto allettante” dice ancora Kretschmar parlando sempre dell’ipotesi dei 35 dollari al barile, e se il prezzo scendesse ulteriormente? “A 20 dollari al barile l’industria sarebbe decimata” conclude.
Gli investitori dovranno trovare quindi soluzioni più stabili, e le cercheranno tra quelle aziende che offrono benefici alla società. È questa la prospettiva tracciata da Colin Melvin della Arkadiko Partners, una società di consulenza che lavora per alcuni dei fondi pensione e d’investimento più importanti su scala globale.
“Lo scopo degli investimenti di capitale è creare benessere e ricchezza nel verso senso della parola” spiega Melvin “penso che questo aspetto sarà sempre più importante”.
Secondo Adam Matthews, direttore del settore etico del fondo pensionistico della chiesa anglicana “il calo della domanda potrebbe accelerare il cambiamento”. “Penso che gli investitori valuteranno attentamente le sfide a lungo termine e si orienteranno verso soluzioni più stabili” ipotizza Matthews.
E se il calo del prezzo del petrolio spingesse verso una ripresa della domanda?
Come accennato, non tutti gli esperti ipotizzano gli stessi scenari per il prossimo futuro. Secondo alcuni infatti le difficoltà attuali dell’industria dei combustibili fossili “è possibile che favoriscano l’utilizzo del petrolio perché costa poco. Potrebbe essere una pessima notizia per il clima” dice Dieter Helm, professore di politiche energetiche dell’università di Oxford.
Ed ecco come mai diventa importante che i Governi intervengano con dei provvedimenti finalizzati a garantire che la ripresa economica dopo la pandemia sia indirizzata verso la battaglia contro i cambiamenti climatici. “È qui che entra in gioco la tassa sulle emissioni” spiega Helm “il momento è ora”.
In questo momento stanno arrivando enormi quantità di denaro a supporto delle economie messe in ginocchio dalla pandemia di coronavirus, solo nei Paesi del G20 sono stati stanziati qualcosa come 5 mila miliardi di dollari, anche se le modalità con cui vengono erogati continuano ad essere poco chiare nella maggior parte dei casi.
I leader europei hanno già promesso di allineare le misure necessarie per rilanciare l’economia, con il green deal della Commissione Ue. Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia, Faith Birol, ha detto a tal proposito che si tratta di “un’occasione storica” per investire in tecnologie capaci di ridurre le emissioni di gas serra.
Negli USA il pacchetto di emergenza da 2 mila miliardi di dollari comprende un finanziamento da 60 miliardi per le compagnie aeree in crisi, poi ci sono i prestiti agevolati per le aziende petrolifere, e questi non sono vincolati all’adozione di misure contro l’emergenza climatica. Misure simili sono state annunciate anche dal Governo del Canada.
Nel 2008, quando ci fu la crisi finanziaria, si iniziò a sperare che gli investimenti in ottica ambientale dei Governi avrebbero prodotto dei risultati tangibili, ma non fu così, e le emissioni inquinanti hanno continuato a crescere fino alla pandemia che stiamo affrontando oggi.
“La grande differenza rispetto al 2008 è che oggi il costo delle energie rinnovabili è inferiore a quello dei combustibili fossili” ha spiegato Bond “continuare a proteggere risorse insostenibili e dal costo enorme non ha più alcun senso. Sarebbe paradossale se i neoliberisti seguaci di Ayn Rand chiedessero di essere salvati dal Governo”.
La soluzione potrebbe essere nazionalizzare il comparto
Si fa strada quindi l’idea che la soluzione migliore, almeno per alcuni Paesi, sia in questo scenario quella di nazionalizzare le grandi aziende petrolifere. La pensa così Adrienne Buller, economista del think tank Common Wealth, che suggerisce questa prospettiva a Paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Canada.
“Non possono permettere che falliscano in massa” spiega la Buller “tuttavia considerando che l’obiettivo di questa partecipazione dovrebbe essere ridurre rapidamente la produzione garantendo un’adeguata transizione per i lavoratori e la fornitura energetica, la nazionalizzazione potrebbe essere una soluzione appropriata e pragmatica”.
Naturalmente ogni salvataggio dovrebbe prevedere accanto alla partecipazione pubblica in azioni un forte impegno in ottica green, per un progressivo abbandono dei combustibili fossili a favore di fonti di energia rinnovabili.
Per l’Associazione internazionale dei produttori di petrolio e gas (Iogp) l’industria petrolifera continuerà a ricoprire un ruolo di grande importanza anche dopo il decorso della pandemia. “Il petrolio e il gas sono molto importanti nel mix energetico globale, e continueranno ad esserlo in futuro” dice un portavoce dell’associazione.
“È troppo presto per prevedere l’impatto a medio termine, ma il settore del petrolio e del gas ha sempre risposto in modo efficace alle difficoltà, e siamo convinti che saprà adattarsi come ha fatto in passato” aggiunge il portavoce “per decenni l’industria petrolifera è stata un motore essenziale della prosperità e dell’innovazione. Ha l’esperienza, le competenze e le risorse necessarie per realizzare un futuro a basse emissioni, e senza di essa la transizione sarebbe molto più efficace e costosa”.
C’è poi da considerare il fatto che sia la Russia che l’Arabia Saudita, nel momento in cui è crollata la domanda di petrolio per via della pandemia, hanno aumentato la produzione. Si tratterebbe secondo alcuni analisti di una mossa volta alla conquista di nuove fette del mercato ai danni dei produttori statunitensi di gas e petrolio di scisto che hanno costi più elevati.
A spiegare ciò che sta accadendo, il professore dell’università di Princeton, Bernard Haykel, secondo il quale la situazione rifletterebbe un cambiamento strategico messo in atto dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.
Haykel spiega infatti che “dato che la transizione globale verso l’energia pulita è inevitabile, Bin Salman sta disperatamente cercando di incassare il più possibile finché può farlo”. Ma quali saranno le conseguenze di questa guerra dei prezzi? Difficile dirlo, quel che è certo è che dipenderanno dai ritmi di estrazione che decideranno di tenere Russia e Arabia Saudita, Paesi che, ricordiamo beneficiano di costi di produzione bassi e tuttavia hanno bisogno di mantenere introiti consistenti per equilibrare i bilanci nazionali.
Secondo Micheal Liebreich, di Bloomberg New Energy Finance, per raggiungere il pareggio di bilancio l’Arabia Saudita avrebbe bisogno che il prezzo del petrolio si aggiri intorno agli 80 dollari al barile, il che vuol dire che le riserve in valuta estera potrebbero durare altri due o tre anni al massimo continuando a vendere a prezzi così bassi.
Diverso il discorso che riguarda la Russia che, precisa Liebreich “con un pareggio intorno ai 40 dollari al barile e un’economia diversificata, può sostenere prezzi bassi per una decina d’anni”.
Probabilmente l’unica cosa certa è che l’industria petrolifera cambierà all’indomani della pandemia, complice anche la guerra dei prezzi. “Le aziende che usciranno dalla crisi non saranno le stesse di quando ci sono entrate” spiega Bond che prospetta “cambiamenti radicali, con tagli e ristrutturazioni”.
Secondo alcuni esperti, tra i quali troviamo Currie della Goldman Sachs, qualcosa cambierà nel dibattito sui temi ambientali alla fine di questa emergenza, quando il mondo avrà superato la pandemia e si avvierà verso la ripartenza, ma “prima bisogna capire quanto durerà questa situazione” sottolinea Kretschmar “e per il momento nessuno lo sa”.
Fonte: The Guardian
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