I ricercatori che stanno studiando le cause dell’epidemia di coronavirus che ha avuto come epicentro la città di Wuhan in Cina e si è ormai diffusa anche nel resto del mondo, hanno trovato un possibile collegamento con i danni arrecati dall’uomo all’ambiente a cominciare proprio dalla deforestazione.
Per giungere a formulare tale ipotesi i ricercatori sono partiti da una considerazione, cioè che il minimo comune denominatore della diffusione di virus quali Ebola, N1H1, Sars, Mers, Zika, è la trasmissione animale.
Sappiamo che circa il 70% delle Eid (Emerging Infectous Diseases, cioè malattie infettive emergenti) deriva da una interazione più o meno stretta tra animali selvatici, animali addomesticati e sapiens (uomo). Quindi in tale contesto è necessario prima di tutto valutare i possibili fattori scatenanti e/o aggravanti.
L’inquinamento dell’aria nelle arie ad alta densità
Il primo fattore da considerare è quello legato alle alte densità di popolazione delle aree urbane, laddove una maggiore presenza umana in aree ristrette si traduce in un più elevato rischio di contagi. Storicamente i nomadi, cacciatori-raccoglitori si ammalavano mediamente meno dei cittadini agricoltori e non sviluppavano epidemie.
Potrebbe non essere quindi una mera coincidenza il fatto che sia la provincia dell’Hubei che la Pianura Padana, dove si sono sviluppati i più grandi focolai di COVID-19, siano zone altamente degradate dal punto di vista ambientale, con tassi di inquinamento dell’aria preoccupanti.
Nessuna certezza di una qualche correlazione tra inquinamento dell’ambiente e diffusione di epidemia, questo va sottolineato, ma i ricercatori ritengono che la questione meriti di essere adeguatamente approfondita.
Il consumo di suolo e la deforestazione
Interessante nell’ottica di tale disamina anche un secondo elemento, quello dell’uso di suolo, con l’aumento delle aree destinate ad allevamenti intensivi, in particolar modo in regioni cruciali per la biodiversità. Questi sono condizioni che portano ad un intensificarsi dei rapporti uomo – fauna domestica – fauna selvatica.
Ci si trova quindi ad affrontare il tema della deforestazione, un’azione umana deleteria per il territorio, che in alcuni casi, come dimostrato in occasione della diffusione del virus Nipah comparso in Malesia nel 1998, produce gravi danni più o meno diretti alla salute dell’uomo.
La diffusione del virus Nepah del ’98 infatti è probabilmente legata all’aumento degli allevamenti intensivi di maiali al limite della foresta, cioè in quell’area in cui si procedeva con una dissennata deforestazione allo scopo di ottenere più suolo che però veniva sottratto alla fauna di pertinenza come quella dei pipistrelli della frutta, portatori del virus appunto.
Possiamo infatti ricollegare sia la Sars che l’Ebola ai pipistrelli, e alle scimmie, esse preda invece di bracconaggio e vendita illegale. Sappiamo che lo spillover, cioè il salto di specie, è sempre possibile, ma viene agevolato laddove le attività umane impongono pesanti modifiche ambientali, come può esserlo l’impianto di allevamenti intensivi e le monocolture come quelle di palme da olio, il tutto a spese della foresta tropicale.
Intervento umano che si consuma insomma ai danni della fauna selvatica proprio dove la si trova più presente per numero di specie e di individui, e dove quindi vi è una più importante presenza di patogeni.
Il commercio illegale di fauna selvatica
Un terzo elemento da considerare è quella del commercio illegale della fauna selvatica, e nel caso specifico del COVID-19 riguarda in particolare il pangolino cinese, le scaglie della cui corazza sono molto ricercate. Il pangolino è infatti braccato dai bracconieri che smerciano poi le sue scaglie ricche di cheratina, ritenute molto utili nella medicina orientale, così come le ossa di tigre e i corni di rinoceronte.
Ma non si tratta solo delle scaglie nel caso del pangolino, la cui carne è molto apprezzata in oriente, ed è così che questo mite animale è uno dei più contrabbandati al mondo. Basti pensare che dagli anni ’60 questa sottospecie è declinata del 90% proprio per via dei bracconieri e del contrabbando.
Ed è proprio nel pangolino che è stato trovato un genoma del virus quasi identico a quello del Coronavirus 2019-nCov trovato nelle persone contagiate. Un genoma che si suppone si sia sviluppato originariamente nei pipistrelli, ma in definitiva il commercio illegale di animali selvatici vivi e di loro parti del corpo potrebbe aver inciso sull’aumento del rischio di pandemie, coi risultati che oggi tocchiamo con mano.
Inoltre il sospetto che l’ospite intermedio di una malattia infettiva sia un animale vivo venduto in un mercato cinese. Un film già visto 17 anni fa con l’epidemia di sindrome respiratoria acuta grave (Sars) ma all’epoca si trattava di una civetta delle palme, e tutto era partito da un mercato cinese dove veniva venduta.
Un ambiente sempre più ostile all’uomo
A completare il quadro un ulteriore elemento da non trascurare, quello di attività di caccia spesso spinte a livelli non sostenibili, e tutta una serie di pratiche adottate per incrementare il rendimento dei terreni agricoli, che però impoveriscono la ricchezza della vita abbattendo le difese naturali degli ecosistemi.
Non aiuta poi il fenomeno del riscaldamento globale, che ad esempio favorisce la riproduzione delle zanzare anofeli, che oggi hanno incrementato i ritmi di riproduzioni in maniera impressionante, e sono arrivate a colonizzare intere aree che non erano mai state toccate dal problema della malaria.
L’Aedes Aegypti è un’altra specie di zanzara che sta trovando condizioni sempre più congeniali per moltiplicarsi. Da qualche anno questa zanzara, portatrice di dengue e febbre gialla, riesce a spingersi oltre i 1.300 metri in Costa Rica, mentre in Colombia Uganda, Etiopia, Ruanda e Kenya arriva anche a 2 mila metri.
Diversi fattori che concorrono a rendere il Pianeta sempre meno ospitale per l’uomo, favorendo invece la diffusione di malattie che come abbiamo visto sono tutt’altro che trascurabili. Così come non sono trascurabili le conseguenze dell’intervento umano sull’ambiente, ed è proprio su questo che si pone l’esigenza di cambiare atteggiamento.
È necessario ridurre l’intensità e il livello di quelle attività distruttive per gli ecosistemi, ed in questo modo si ridurrebbe parallelamente il rischio che si sviluppino pandemie, anche attraverso un conseguente rafforzamento delle nostre stesse difese immunitarie.
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