Sono state sostanzialmente tre le notizie che in questi giorni ci hanno ricordato quanto sia importante correre ai ripari nell’ambito del riscaldamento globale. La riconversione energetica in particolare, una priorità che non può e non deve essere rimandata ancora.
Le notizie, come dicevamo, sono tre. Cominciamo proprio da quella che ha invaso i social con immagini drammatiche, vale a dire i disastrosi incendi che hanno ridotto in cenere intere forestre nel sud dell’Australia, causando la morte di milioni di animali, per non parlare delle 25 vittime tra i residenti. Se si osservano le immagini dal satellite il messaggio è forse persino più chiaro.
È evidente che l’uomo non è in grado di salvaguardare adeguatamente il patrimonio ambientale, ed è ancora più palese la sua totale impotenza di fronte a disastri di queste proporzioni.
La seconda notizia riguarda l’Italia, ed in particolare la Pianura Padana, dove il livello delle polveri sottili nelle ultime settimane è schizzato alle stelle. Le polveri sottili sono estremamente dannose per la salute, e i loro livelli sono completamente fuori controllo. Lo stop imposto ad alcuni veicoli specie nelle città in cui la situazione è più grave non risolve il problema, lo attenua soltanto.
E veniamo alla terza notizia, che è poi quella che negli ultimi giorni ha tenuto un po’ sulle spine il mondo intero. L’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani ordinato dal presidente USA Donald Trump, con la conseguente escalation di minacce di ricorso alla violenza, che fortunatamente non hanno avuto un vero seguito. Probabilmente a primo impatto questa terza notizia non sembra in alcun modo collegata alle altre due, purtroppo invece lo è.
Il punto è che gli incendi in Australia sono sicuramente il frutto di un controllo del territorio del tutto insufficiente, ma l’Australia ha iniziato a bruciare quando ha smesso l’Amazzonia, e nel frattempo sono andati in fumo ettari su ettari di foreste in Siberia. Quello che è chiaro è che i danni causati dall’incuria e dalla sottovalutazione dei rischi ambientali sono enormi.
Quanto alle polveri sottili che stanno trasformando la Pianura Padana in una gigantesca camera a gas, la causa è l’inquinamento, per buona parte dovuto alle emissioni delle automobili. Un allarme smog al quale forse siamo abituati, ma che non per questo è meno grave, e la riflessione cui dovrebbe condurre è l’urgenza di investire su mezzi di trasporto meno inquinanti.
Anche perché, e qui ci ricolleghiamo alla terza notizia, come riportato su il Corriere, “la transazione verso l’energia pulita e alternativa è indispensabile non solo per ridurre le emissioni di anidride carbonica, ma anche per sottrarsi a pericolose dipendenze nelle forniture petrolio e gas“.
Il Green New Deal
L’Europa si sta già muovendo, è anzi importante sottolineare che proprio l’Ue detiene in qualche modo un primato mondiale quanto a misure emanate in ottica green.
La Commissione Ue, guidata ora da Ursula Von der Leyen ha anche deciso di varare un ambizioso Green Deal del valore complessivo di 10 miliardi di euro in dieci anni, grazie al quale i Paesi dell’Ue raggiungeranno entro il 2050 la neutralità nell’emissione di CO2.
Il vicepresidente Frans Timmermans, in una intervista al Corriere ha fatto notare che molto dipenderà dalla riforma del bilancio 2021 – 2027 dell’Ue. La proposta che dovrebbe arrivare dall’esecutivo comunitario è quella di una sorta di golden rule da applicare agli investimenti verdi, ma si prevedono resistenze da parte dei Paesi del Nord.
I capitali per procedere con questo piano, almeno in teoria, non mancano. Basti pensare che ci sono Paesi come la Germania e l’Olanda ma non solo, che godono persino di tassi negativi e che quindi potrebbero far pagare la “ripulitura dell’ambiente” ai loro stessi creditori.
La situazione in Italia
La situazione finanziaria dell’Italia però è completamente diversa da quella di Germania e Olanda, è risaputo, e con questi livelli di indebitamento alla fine si sente parlare molto di clausole di salvaguardia e molto poco di investimenti in ottica green.
Per i prossimi due anni l’Italia dovrà far fronte a clausole di salvaguardia che ammontano a 47 miliardi di euro, eppure nella lotta al riscaldamento climatico c’è molto che si può e si deve comunque fare.
L’attuale Governo presieduto da Giuseppe Conte si è già mosso in tal senso, ha perfezionato alcuni importanti decreti e si appresta a scriverne altri. Parliamo ad esempio del Piano Nazionale sull’energia e il clima, inoltre sono già stati stanziati 33 miliardi in 15 anni ai quali potrebbero aggiungersi i proventi derivanti dall’emissione di obbligazioni verdi. Altri capitali potrebbero poi arrivare dalla Cassa Depositi e Prestiti, dalla Banca Europea degli Investimenti e dai privati.
Tra le idee in cantiere quella di stabilire nuovi limiti al consumo di suolo, magari attraverso il varo di una nuova legge urbanistica, d’altra parte quella in vigore adesso risale al 1942. Ad ogni modo il Governo sembra intenzionato ad agire ai fini della tutela dell’ambiente, ed i segnali sembrano esserci tutti.
I dati sulle emissioni di Co2 e sugli investimenti per ridurle
L’Europa è responsabile solo del 10% delle emissioni di CO2 globali, gi Stati Uniti per esempio, con la metà della popolazione rispetto al vecchio continente, emettono il 15% della CO2 nell’atmosfera e si sono ritirati dagli Accordi di Parigi già dal 2015. Il 30% delle emissioni di Co2 arriva invece dalla Cina, il che rende quanto mai chiaro che per agire in maniera efficace è indispensabile la collaborazione di tutti i Paesi del mondo.
Lorenzo Forni, segretario generale di Prometeia Associazione, e docente all’Università di Padova, ha detto chiaramente che non ci sono alternative valide. La decarbonizzazione d’altra parte ha un costo anche in termini sociali, che deve essere tenuto in conto e suddiviso equamente.
In parole povere significa che nella fase di transizione energetica una parte della popolazione, ad esempio quella che si trova impiegata in settori ad alte emissioni, si troverà a pagare un costo in termini occupazionali, e dovrà essere adeguatamente ricompensata. Cosa che si rende necessaria anche al fine di evitare forme di rigetto sociale politicamente ingestibili.
Proprio a tal fine il piano europeo prevede un Just transition fund, cioè un fondo che serve proprio per agevolare questa fase di transizione energetica. Da un lato però gli investimenti compiuti in ottica green portano allo sviluppo di alcuni settori, come quello della ricerca, e anche alla creazione di nuove imprese e quindi occupazione qualificata.
Il che si potrebbe tradurre in un ulteriore vantaggio tecnologico per l’Europa, che in questo campo si trova già un passo avanti rispetto al resto del mondo, senza contare che si andrebbe verso un maggiore controllo delle emissioni con un altro passo avanti nelle energie alternative.
Non tutti i Paesi europei hanno adottato le stesse politiche per la decarbonizzazione, ma si parte da un comune denominatore rappresentato da una leva fiscale alla produzione (carbon tax) e al consumo (energy tax). In Svezia troviamo la Carbon tax più alta, siamo a 120 dollari per tonnellata di Co2, ma copre solo il 40% delle emissioni.
Stando a quanto riportato su il Corriere “la Commissione europea studia anche l’estensione del sistema dei certificati di inquinamento (European emissions trading system), introdotto nel 2005 e del relativo mercato” inoltre “grazie allo sviluppo delle rinnovabili l’Italia ha un vantaggio stimato in 1,4 miliardi l’anno nella cessione di certificati ad altri Paesi”.
Lorenzo Forni spiega che “oggi il costo di emettere una tonnellata di Co2, all’interno del sistema dei certificati di inquinamento europeo, è di circa 25 euro. Per raggiungere le neutralità nelle emissioni si dovrebbe almeno triplicare. L’impatto finale sui prezzi al consumo dipenderebbe da molti fattori, dalla rigidità della domanda, dal livello del risparmio energetico, dall’impatto sulle fonti alternative, comunque sarebbe assai significativo”.
I dati sui costi dello studio Prometeia
Stando a quanto evidenziato dallo studio Prometeia sui dati del Fondo Monetario, l’Italia potrebbe riscontrare un rincaro del costo del carbone del 134%, del 50% per il gas naturale, e del 18% per l’energia elettrica.
La domanda che pone Forni è “ce lo possiamo permettere? Ed è chiaro” aggiunge “che un simile traguardo non può essere raggiunto con le attuali regole europee sui bilanci degli Stati”. Il vero ostacolo è quello rappresentato dagli effetti indotti sulla competitività dei prodotti europei rispetto a quelli che arrivano da fuori Ue, dove non vige una carbon tax che condizione pesantemente il processo di produzione.
È stata ipotizzata anche l’introduzione di una sorta di carbon border tax, che colpirebbe i prodotti in arrivo da fuori Ue, per la quale però ci si troverebbe ad affrontare una serie di difficoltà di applicazione.
Antonio Navarra, presidente del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc) ha osservato che “in un quadro generale assai preoccupante un elemento positivo comunque c’è. Negli ultimi anni si è rotta la stretta relazione fra crescita dell’economia e aumento delle emissioni. Queste ultime crescono meno del prodotto mondiale. Ma se smettessimo all’improvviso di aumentare le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, la Terra smetterebbe di riscaldarsi solo tra quindici, vent’anni”.
Quale potrebbe essere quindi la soluzione per ridurre la quantità di CO2 già presente nell’atmosfera? “Si può catturare, mettere sotto terra nei giacimenti vuoti, ma ovviamente tutto ciò non è privo di costi e di problemi di accettabilità sociale. E soprattutto è indispensabile forestare il più possibile, ma anche in questo caso ci sono vincoli e costi opportunità legati al consumo di suolo” propone Antonio Navarra.
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