Una situazione molto grave quella in cui versano le aree limitrofe di alcuni siti contaminati in Italia e nel resto d’Europa. Secondo uno studio dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sarebbero 340 mila in Europa, 12.482 dei quali sono in Italia con 58 casi considerati gravissimi per l’entità della contaminazione e il rischio sanitario.
In alcuni casi la competenza per la bonifica è del ministero per l’Ambiente, in altri invece è delle Regioni, ma in tutti i casi la situazione di quelle aree è di stallo totale. E’ dal 1998 che i siti sono stati indicati come un pericolo ambientale e per la salute, ma a fronte di tutti i finanziamenti già stanziati per un totale di oltre 3 miliardi di euro, e di enormi spese già sostenute in massima parte per analisi e ricerche, i lavori di bonifica del suolo e della falda acquifera sono praticamente fermi.
L’Ispra ha contato 12.482 siti potenzialmente contaminati su tutto il territorio nazionale, e nella sola Lombardia i casi sarebbero addirittura 3.733. I siti non presentano tutti lo stesso livello di inquinamento, e quindi non rappresentano sempre lo stesso livello di rischio per l’ambiente e per la salute.
Le aree inquinate al punto tale da rappresentare un pericolo per la salute sono state definite “siti di interesse Nazionale” (Sin), e sono 58. La decisione di provvedere con la loro bonifica risale al 1998, ma per la stragrande maggioranza i siti sono ancora nelle stesse condizioni in cui si trovavano 20 anni fa. In molti casi addirittura non è stato stabilito quale sia la reale portata della contaminazione del suolo e della falda acquifera.
Un quadro tutt’altro che rassicurante. Si parla di aree industriali ormai dismesse, ma anche di alcune tutt’ora in attività. In alcuni casi invece si tratta di siti nei quali si sono verificati incidenti che hanno portato al rilascio di pericolosi inquinanti chimici, mentre in altri sono stati intenzionalmente interrati o ammassati rifiuti pericolosi.
La competenza della bonifica, come accennato, si divide tra ministero dell’Ambiente e Regioni, mentre inizialmente era stato previsto che fosse tutto in carico allo Stato. Dei 58 siti di interesse nazionale (Sin) per 41 le operazioni di bonifica sono di competenza del ministero, mentre per gli altri 17 è delle Regioni.
L’ex ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, il 19 gennaio 2017 in Senato riferiva lo stanziamento di circa 3 miliardi di euro “dal mio Ministero a favore delle Regioni, dei Commissari delegati e delle Province Autonome di Trento e Bolzano”. La cifra esatta degli stanziamenti ammonta oggi a 3.148.685.548 euro ma ancora le operazioni di bonifica sono praticamente ferme.
“Pensiamo a un fondo unico ambientale per sostenere le bonifiche” ha dichiarato di recente Sergio Costa, attuale ministro per l’Ambiente, ma la situazione sembra bloccata non per mancanza di fondi, bensì per ragioni che vanno ricercate altrove. Lo faceva notare la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che rilevava “l’estrema lentezza, se non la stasi, delle procedure attinenti alla bonifica dei Sin”.
I siti potenzialmente contaminati regione per regione
Ecco qual è la situazione dell’intera penisola vista regione per regione. Risalta subito agli occhi il caso della Lombardia, con oltre 3.000 siti in attesa di bonifica. I dati di seguito provengono dall’EEA – Elaborazione ISPRA su dati SNPA.
- Piemonte: 778
- Valle d’Aosta: 32
- Lombardia: 3.733
- Trentino-Alto Adige: 140
- Veneto: 449
- Friuli-Venezia Giulia: 131
- Liguria: 343
- Emilia Romagna: 316
- Toscana: 1.600
- Umbria: 179
- Marche: 495
- Lazio: 1.088
- Abruzzo: 659
- Molise: 32
- Campania: 590
- Puglia: 322
- Basilicata: n.d.
- Calabria: 61
- Sardegna: 674
- Sicilia: 860
Stanziamenti di oltre 3 miliardi per bonifiche mai effettuate
In alcuni casi, tra quelli più gravi di siti inquinati, la bonifica del terreno e della falda acquifera ha superato di poco il 10%, ma nella stragrande maggioranza delle aree che dovrebbero essere interessate da seri interventi di bonifica, le percentuali sono molto più basse.
In Veneto sono stati usati 781 milioni di euro per bonificare solo il 15% dei terreni e l’11% della falda acquifera di Porto Marghera. Un quadro ancora più sconfortante lo abbiamo in Campania, dove nel Sito di Interesse Nazionale di Napoli Orientale nel quale si trova tutt’ora la quasi totalità degli impianti di deposito e stoccaggio di gas e prodotti petroliferi presenti nel territorio cittadino, le operazioni di bonifica del terreno hanno raggiunto appena il 6%, mentre quelle che riguardano la falda solo il 3%.
Nell’area di Napoli occidentale le operazioni di bonifica sono praticamente ferme. Qui troviamo i siti dell’ex Ilva, ex Eternit, ed ex discarica Italsider, con oltre 242 ettari di superficie potenzialmente inquinati da metalli pesanti, ipa, fenoli e amianto. Sono stati stanziati dal ministero dell’Ambiente circa 10 milioni di euro, ma le bonifiche sono allo 0%.
In Basilicata le cose non vanno meglio. I siti inquinati in questa regione sono fortunatamente pochi, ma le operazioni di bonifica sono solo al 4%. Stesso discorso per la Sardegna, dove il ministero ha indirizzato 77 milioni e ne sono stati spesi 20 per le aree industriali inquinate di Sulcis-Iglesiente-Guspinese.
La Regione Sardegna però fa sapere che “la maggior parte delle risorse sono in fase di progettazione, poi a causa della complessità delle opere e dell’aggiornamento della normativa sugli appalti, il grosso degli interventi deve essere ancora cantierato”. In altre parole 20 milioni spesi in consulenze e ricerca.
In Sicilia ci sono i siti contaminati di Priolo in provincia di Siracusa, Biancavilla in provincia di Catania e Gela in provincia di Caltanissetta per i quali sono stati spesi circa 3 milioni di euro ma le bonifiche in realtà non sono mai iniziate.
Per le aree industriali di Trento è successa la stessa cosa, 19 milioni di euro di fondi del Ministero dell’Ambiente ma nessuna operazione di bonifica. Così pure in Friuli, dove è stata rilevata la presenza di metalli pesanti nei terreni e nella falda dell’area della Caffaro di Torviscosa, nonostante i 35 milioni che sono arrivati dal ministero.
In Toscana i finanziamenti arrivati per le operazioni di bonifica dei Sin di Orbetello e Livorno che non sono mai partite hanno superato i 20 milioni di euro. Il Piemonte presenta molte aree pesantemente inquinate per le quali sarebbero necessarie urgenti operazioni di bonifica, e nonostante i 51 milioni di euro messi sul tavolo dal ministero per le aree di Balangero, Pieve Vergonte e Serravalle Scrivia, le operazioni sono ferme.
Bonifche allo 0% non solo in queste aree piemontesi, ma anche in quelle che questa regione condivide con la Liguria, cioè i siti contaminati di Cengio e Saliceto.
Ancora più preoccupante la situazione in cui versa la Lombardia. Si trovano qui infatti ben 3.733 dei 12.482 siti potenzialmente contaminati su tutto il territorio italiano. In 5 di queste aree è stata rilevata la presenza nel terreno e/o nella falda di metalli pesanti, idrocarburi e PCB, con operazioni di bonifica che sarebbero dovute partire 18 anni fa, e per le quali il ministero ha già sborsato oltre 200 milioni di euro. Come detto però non è un problema di mancanza di fondi.
Si spende tutto in analisi e ricerche sui siti, perché?
Secondo quanto emerso da uno studio della European Environment Agency, i costi che vengono sostenuti per analisi e ricerche sui siti inquinati in Europa si attestano tra i 5 mila e i 50 mila euro, mentre in Italia le stesse indagini arrivano a costare mediamente 5 milioni di euro.
Questo è il vero nocciolo della questione. In qualche modo invece di provvedere con le operazioni di bonifica si finisce per finanziare a oltranza operazioni di ricerca, pagando parcelle evidentemente gonfiate a sproposito, con prezzi che lievitano fino ad essere da 100 a 1.000 volte più alti rispetto alla media europea.
Non è questo l’unico ostacolo in realtà. Si riscontrano infatti evidenti difficoltà nel risalire ai responsabili e quindi nell’applicazione del principio secondo il quale ‘chi inquina paga’. Spesso risalire a chi ha la responsabilità relativa all’inquinamento di un sito è difficile se non impossibile in quanto gli eventi che lo hanno determinato possono essersi verificati decenni addietro.
Si veda ad esempio la complessa situazione che vede coinvolto lo stabilimento dell’ex Ilva di Taranto, e il braccio di ferro con il governo anche sul punto del ripristino dello scudo penale.
A Porto Maghera si era riusciti ad applicare un altro principio, quello in base al quale se non è possibile far pagare il responsabile si farà pagare chi detiene l’area inquinata, ed in questo modo lo Stato era riuscito ad incassare 700 milioni di euro, che sono stati poi utilizzati per le operazioni di messa in sicurezza del sito, e per evitare l’espandersi della contaminazione.
Si tratta però della messa in sicurezza e non delle operazioni di bonifica. Inoltre, a partire dal 2011 con l’emanazione dei vari decreti Ilva, ottenere il risarcimento da parte di chi detiene l’area inquinata è diventato più complicato, e alla fine le operazioni di messa in sicurezza finiscono per essere quasi sempre a carico dello Stato.
Lo Stato avrebbe solo da guadagnarci anche in termini economici
Eppure sulle opere di bonifica lo Stato e quindi l’intero Paese, non avrebbe che da guadagnarci. Ed ovviamente non solo in termini di salute, ma proprio dal punto di vista economico. Il fabbisogno in merito alle opere di bonifica è stato stimato da Confindustria in 10 miliardi di euro, un dato emerso nel 2008 e confermato anche nel 2016.
Quello che sta accadendo però è che con il passare del tempo, per via dei ritardi nella messa in cantiere dei lavori di bonifica, la criminalità organizzata sta riuscendo ad infiltrarsi. Dal 2002 ad oggi ci sono già state 19 indagini che hanno portato alla luce operazioni di smaltimento illegale di enormi quantità di rifiuti derivanti dalla bonifica di siti inquinati. Le ordinanze di custodia cautelare emesse negli ultimi 15 anni sono state 150, con 550 persone denunciate e 105 aziende coinvolte.
Se invece le opere di bonifica partissero oggi, nell’arco di 5 anni si creerebbero 200 mila posti di lavoro, ci sarebbe un aumento della produzione di più di 20 miliardi di euro, e nelle casse dello Stato ci sarebbe un ritorno di 5 miliardi circa.
L’enorme danno arrecato alla salute pubblica
Secondo quanto rilevato dall’Istituto Superiore della Sanità, che da anni sta monitorando i rischi per la salute dei 6 milioni di abitanti che loro malgrado vivono in località situate nelle aree vicine a 45 dei 58 Sin, il danno per la salute è molto alto.
Si parla di un aumento di tumori maligni in ragazzi di età inferiore ai 25 anni del 9% rispetto a chi vive in zone non a rischio. Non solo, perché le ripercussioni sulla salute si riscontrano anche in un aumento di malattie respiratorie per bambini e ragazzi, e con un rischio di mortalità più alto del 4-5%.
Si tratta di dati molto preoccupanti, soprattutto se si considera che allo stato attuale delle cose l’ISS prospetta un peggioramento dello scenario nel corso dei prossimi anni.
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